lunedì 22 febbraio 2010

SOLO CIELO SOPRA LA MIA TESTA


E' trascorsa una settimana, un'intera settimana sulle Dolomiti di Sesto.
Sono fuggita presto dalle affollate piste da sci, complici il costo proibitivo dello skipass e la mia fame di solitudine.
Lunedì è una giornata perfetta per cominciare: il delirio del fine settimana è ormai passato e in cielo non si vede una nuvola. Parto da casa, sapendo solo che voglio arrivare a Prato Piazza e che i -10° non saranno un ostacolo.
Il gelido fondovalle che porta a Ponticello non raffredda il mio entusiasmo e decido che salirò da qui i 600 metri fino all'altopiano. Devo coprirmi scrupolosamente e ignorare il gelo che aggredisce le gambe: basteranno una decina di minuti di buon passo per farmi togliere giacca e cappello, mentre salgo di quota e il sole mi acceca con una vaga promessa di tepore. Solo qualche raro fondista mi raggiuge col suo fluido passo pattinato e io continuo a salire verso il frullo di una cincia e spicchi sempre più vasti di azzurro. Dalle conifere si staccano turbini di ice crystal, la povere di ghiaccio luccicante che la digitale non riesce a catturare, lasciando solo la magia di un ricordo. 
La foresta profuma di neve e di cortecce scaldata dal sole e non c'è spazio per l'impazienza dell'arrivo: il cammino è già perfezione.
Sbuco sulla grande conca assolata senza sapere che ora sia, certa solo di essere arrivata "a casa".
Per questi spazi gli occhi non bastano e le immagini non dicono l'onda lunga di commozione che annoda la gola. Tutto è bianco, morbido e lucente. L'altopiano è un piumino  meringato acceso di minuscoli bagliori e sopra la testa c'è solo cielo denso e smisurato. Continuo a camminare verso il rifugio Vallandro, faccia al sole e respiro più lento, sentendo già odore di cibi caldi e sollievo di sedere su una panca.
Lì sopra c'è lo Strudelkopf, che non è un dolce altoatesino ma il monte Specie, una modesta cupola di neve affacciata sulle Tre Cime di Lavaredo.
Un'urgenza imprevista mi spinge lassù, mentre scopro il sentiero ben battuto che non attende altro che i miei passi. Bevo e mando giù un boccone, ma non ho fame e nè sete: voglio solo continuare a camminare. Qualcuno mi precede e il cammino è dolce e senza insidie. Non sono io a camminare: è una forza pneumatica che mi solleva verso l'alto, senza sudore nè fatica. Mi chiedo se per caso ho assunto qualche farmaco, ma questo è puro doping naturale, frutto di una entusiasmo senza uguali.
Gli scenari cambiano, le prospettive si moltiplicano, ma il famoso panorama delle Tre Cime non sarà visibile fino alla fine. La croce è ormai a portata di mano e ora in cima non c'è nessuno. E' una cima modesta, solo 2300 metri, ma quel che vedo ha un sapore di ghiaccio e di calore, l'ennesima onda che attravesa il corpo senza passare per la mente.
Gli occhi non bastano, non basta l'obiettivo, non basterà il ricordo.
Arriva qualcuno per poter conservare il mio sorriso e l'orgoglio di una scoperta che non potrò condividere con nessuno. Ritorno a valle di corsa, ubriaca di bianco e di blu, per lunghi traversi lungo le pendici del Picco di Vallandro e tenui sgocciolii di disgelo. Sono stanca, affamata e ustionata. Ho solo voglia di una radler e di un minestrone e di fuggire un momento dal riverbero accecante, mescolandomi per poco con la gente e confondendomi col brusio del rifugio. Non ho voglia di parlare con nessuno, ma ho bisogno di qualcuno vicino per godermi il recente privilegio della solitudine.
Torno a valle solo quando il sole comincia a cedere e la foresta innevata ingrigisce. A Ponticello non c'è più nessuno e per mezz'ora ancora mi godo l'attesa della mia stanza  accogliente e di un thè caldo e di una doccia bollente, che smettono di essere ovvietà, ma ridiventano privilegi.
Gli altri sono rientrati dalle piste, giustamente orgogliosi dei loro successi.
Fingo di entusiasmarmi, ma non sono capace di raccontare la mia giornata.

domenica 21 febbraio 2010

SORPRESE DI CASA



Pranzo in compagnia, oggi.
Il piacere di rivedere gli amici si sovrappone alla speranza di qualche ora all'aria aperta, oggi che ha finalmente smesso di diluviare.
In attesa di raccogliere le idee dopo un'intera settimana di montagna, vi racconto di una banale domenica in città e di come la si possa trasformare in una piccola avventura.
A Lucinico (3 km da Gorizia) si può comodamente arrivare in auto, in bicicletta, e perfino a piedi, alternative tutte già sperimentate. Ma oggi, dopo aver macinato una media di dieci chilometri al giorno nell'ultima settimana, ho bisogno di qualcosa di più: partirò da casa a piedi e arriverò a destinazione via Monte Calvario. 
Ci metto un'attimo a capire che, dopo solo una settimana di assenza, in città la primavera è alle porte: le camelie di via del Poggio hanno boccioli sul punti di esplodere e il gelsomino di S. Giuseppe sta ormai sfiorendo, segno che siamo entrati nell'era di bucaneve, primule e colchici.
Il Corno è gonfio di pioggia e gorgoglia prima di tuffarsi nell'Isonzo; non puzza, oggi, ma porta con sè aria sottile di fango e di neve.
Stracci di nuvole trattengono la luce e l'azzurro, ma è primavera, non c'è nulla da fare.
In una manciata di minuti arrivo a Piedimonte e nel piccolo borgo agricolo raccolto intorno alla chiesa mi aggrediscono gli odori: odore di brodo, che sfugge dalle finestre aperte in attesa del pranzo domenicale, profumo di linfa dai tagli di un pergolato di vite, sentore di muffa e di fango dagli  angoli ombrosi.
Il sentiero parte poco sopra la chiesa, a fianco di un rivo gonfio d'acqua che si riversa a valle, e sale viscido di pioggia su per il bosco di acacie e di rovi. Ancora odori intensi di terra umida e di fauna selvatica, e poi un'esplosione di ellebori  accanto ad una solitaria cappella votiva.
Sono lontana da tutto, in un silenzio surreale.
Su per la salita sostenuta ci sono solo  impronte recenti di capriolo e grufolate di cinghiale, cespugli di pungitopo e foglie di roverella che marciscono al suolo.
Quando scollino, la pianura si apre e non so dove sono: non vedo la stele del Calvario, ma intuisco che devo puntare dritto a sud. L'incontro con la strada asfaltata segna il ritorno nel mondo conosciuto. D'ora in poi  sarà solo discesa e un cammino familiare verso le vigne  e i campi coltivati. I ruscelli esondano allagando la strada, con un gorgoglio che parla di verde e di tepore, mentre le poiane volteggiano speranzose in cerca di un partner.
Oggi si può fare a meno di qualunque cosa: ciò che è indispensabile sta tutto in un'ora e mezza di cammino solitario.

giovedì 11 febbraio 2010

11febbraio 2010

Principesse di ghiaccio e strudel salati

UhUhUh! Che delusione!
Non spendete i pesantissimi € 18,50 per "la nuova Agatha Cristie dalla Svezia": la principessa di ghiaccio di Camilla Lackberg (Farfalle Marsilio) è una ravanata galattica! Sull'onda del successo dell'osannato Larsson, i giallisti scandinavi sono fioriti come licheni nel panorama letterario contemporaneo ma, credetemi, perchè ne ho macinati a decine, pochi si salvano dalla mediocrità.
Sei al prolifico Mankell, che non stupisce, ma non manca di mestiere, sette  a Larsson, che resta un onesto giornalista, pur capace di intrecci superbi,  ma l'eccellenza va solo all'islandese Indridasson: asciutto e composto nella scrittura, lo trovo un interprete eccezionale dell'artica desolazione dell'isola dei ghiacci. Gli altri non arrivano alla sufficienza.
E la Lackberg, fra tutte, si becca un tre senza appello.
Noiosa al limite del soporifero, rimescola dialoghi scipiti e personaggi che definire scontati è un eufemismo. 458 pagine di banalità, senza un solo guizzo che meriti la spesa. Se l'avete comperato, mal per voi. Se ne avevate l'intenzione, rinunciate, a meno che non abbiate bisogno di sonniferi e il medico si rifiuti di prescriverveli.
Insomma, oggi sono delusa e anche un pò incazzata, quindi vado in cucina a tentare di dimenticare le ultime ore mal spese.
Un petto di pollo e qualche cespo di radicchio tardivo occhieggiano in attesa di riscatto, e io raccolgo la sfida: stasera strudel salato, ma a modo mio.
Detesto la pasta sfoglia: è sempre troppo unta e, farcita di ingredienti umidi, rimane molliccia anche dopo una robusta cottura in forno.Quindi, viva gli strudel e le torte salate, ma con la briseè! Dopo una consolidata esperienza, a farla a mano ci vogliono 10 minuti, ed è un investimento sulla propria manualità che vale la pena: con semplici ingredienti che abbiamo tutti in dispensa, si inventa un piatto di effetto che può risolvere un'emergenza. Un paio d'etti di farina si ammonticchiano sulla spianatoia, con un buon pizzico di sale, un uovo intero e (ahimè) un buon etto di burro freddo spezzettato. Si impasta velocemente, aiutandosi all'inizio col coltello, evitando di scaldare l'impasto che sennò tende a "bruciare" e ad indurire. Se il composto lo richiede, va aggiunta con parsimonia un pò d'acqua fredda, fino ad ottenere una pasta elastica e compatta. La palla va poi coperta con la pellicola e ficcata in frigo finchè non è pronto il ripieno.
Il solito soffritto lento e paziente stavolta va fatto con 3 o 4 scalogni, più dolci e delicati e che cuociono prima, ma può andar bene anche la cipolla, a patto che sia trattata con tutti i crismi, ossia senza MAI bruciare, sennò diventa amara. Ad avanzato stadio di cottura, diciamo dopo mezz'ora, allo scalogno si aggiunge il radicchio (un buon cespo è sufficiente) ridotto a tocchetti, più sottili alla base e un pò più larghi verso la punta. Bastano una decina di minuti, che spendiamo per rosolare in poco olio mezzo petto di pollo a dadini regolari. Saliamo entrambi gli ingedienti e li assembliamo, dando loro qualche minuto di intimità perchè imparino a conoscersi. Accendiamo il forno a 180°.
Ora ci vuole un pò di besciamella. Sì, lo so che è già un pò che spignattiamo, ma qualche cucchiaiata di legante è necessaria e prometto che basteranno pochi minuti: una grossa noce di burro va fatta sciogliere fino a sfrigolare, si lanciano due grossi cucchiai di farina, che assorbono di botto il grasso e si raggrumano in un baleno. Occhio a non far bruciare e, sempre mescolando con energia e senza perdere il governo della situazione, si versa il latte, all'inizio pochissimo per volta, lasciando assorbire prima di aggiungerne dell'altro. Si deve raggiungere una massa morbida e senza grumi (solo se siete stati pazienti e costanti nel mescolare energicamente con la frusta!) della consistenza di una crema fluida. Non è necessario aspettare i 20 minuti canonici di cottura della farina (altrimenti indigesta) perchè andrà in forno e completerà lì la cottura. Basta salare e aggiungere al pollo e al radicchio, dando cremosità al tutto, senza esagerare con la quantità: il risultato dovrà essere un composto legato e cremoso, ma non liquido.
Recuperata la palla di briseè, andremo a smatterellarla velocemente senza scaldarla su un bel pezzo di carta forno infarinato, dando una forma allungata e sottile per ottenere uno strudel. Ora basta disporre il composto e richiudere la pasta, sigillando i bordi con un velo d'acqua che fa da collante. Visto che abbiamo lavorato sulla carta, basta trasferire il tutto sulla teglia e poi dritto in forno per una mezz'ora, controllando che non scurisca troppo.
Dopo, lasciatelo riposare con calma e non tagliatelo prima che sia tiepido, così il ripieno rimane più compatto.
L'amarognolo del radicchio esalta la dolcezza e la consistenza dei bocconcini di pollo, legati morbidamente dalla crema di scalogno e dalla besciamella, la pasta briseè sarà consistente ma non stucchevole come la sfoglia.
Insomma, un trionfo di sapori e consistenze, perfetti per dimenticare Camilla Lackberg e le sue nefandezze letterarie!

mercoledì 3 febbraio 2010

RADICCHI E LENTICCHIE

Titolo del post che sembra quello di un film di Totò!
Pomeriggio libero, oggi, speso tra la conclusione di "La morte segue i Magi" di Hans Tuzzi e l'allestimento di una di quelle cene che scaldano il cuore in una gelida giornata di febbraio. Appena termino l'ultima pagina, sono già in crisi d'astinenza. Tuzzi si muove in una Milano degli anni Ottanta, del tutto estranea alla  "Milano da bere". Si alimenta di citazioni artistiche e letterarie che non hanno nulla di "colto", ma si presentano invece perfettamente inserite in un contesto narrativo che attraversa il mondo del collezionismo d'arte. La Milano del Commissario Melis è una città tetra e dolorosa, addolcita dal rimpianto del protagonista per le antiche trattorie con cucina casalinga e i perduti splendori dei palazzi umbertini, ormai colonizzati dai nuovi poteri finanziari. L'intreccio è solido, i personaggi  credibili e ben delineati. Il giallo è un pretesto per parlar d'altro, ma regge fino in fondo e accompagna in una galleria di emozioni e di  autentica poesia.
Chiudo l'ultima pagina e mi dico: e ora che faccio? Sono di nuovo orfana, come tutte le volte che  terminare un libro lascia potenti suggestioni e più domande che risposte. Bravissimo Hans!
Per tenere a bada l'inquietudine, mi invento una cenetta che scaldi le membra e il cuore. Ho ricevuto in dono con noncuranza un sacchetto di lenticchie di S. Stefano di Sessanio: chi apprezza il genere, sa che sono "le" lenticchie, quindi, pronti, via!
Una bella cipolla va fatta soffriggere come si deve, seguendo i diktat di Allan Bay: quasi un'ora di cottura lentissima con un paio di cucchiai di olio evo per sconfiggera la fibra coriacea della cipolla e trasformarla in una morbida, dolcissima massa traslucida. Ho aggiunto poi mezza bottiglia di passata di pomodoro industriale ma di buona qualità e un trito di rosmarino, salvia e timo freschi (benedetto giardino!), sale e pepe e, infine, le superbe, minuscole lenticchie rugginose (250 grammi), acqua calda fino a raggiungere una consistenza assai brodosa, e poi via di cottura lenta semicoperta. Dopo un'altra oretta (trascorsa a sbirciare le prime pagine della prossima avventura letteraria), e la zuppa è cotta. La lascio riposare, cercando tra i ripiani del frigo un'altra idea per completare la cena. Due cespi di radicchio tardivo, gorgonzola e noci: non c'è molto da ragionare per un piatto che, con poco, diventa quasi sontuoso. Divido i cespi in due e li rosolo in padella per qualche minuto con un filo d'olio e una spizzicata di sale, ammorbidisco il gorgonzola (deve essere dolce e non piccante per smorzare l'amarognolo del radicchio) e riduco grossolanamente i gherigli di noce. Passo poi il radicchio scottato in una teglia, lo farcisco con abbondante gorgonzola, ficcandolo a forza tra le costole della verdura e cospargo con la granella di noce, un filo d'olio e via in forno a 160°, coperto con un foglio di carta forno.
I venti minuti di permanenza li spendo per proseguire la lettura di "Il suggeritore", corposa opera prima di Carrisi, di cui un collega mi ha detto un gran bene.
A cena c'è profumo di orto e di sapori semplici ma ben definiti, mentre la notte ha steso una coperta blu sulle strade ancora sporche di neve.

lunedì 1 febbraio 2010

30 GENNAIO 2010


ANCORA NEVE IN CITTA'

Ha nevicato di nuovo, stanotte, e stamattina, un tuffo al cuore.
Esco a metà pomeriggio, dopo aver assolto ai tediosi compiti del sabato mattina e obbedisco al consueto richiamo che mi porta verso Straccis. Non c’è nulla da fare: potrei andare altrove, in una qualunque altra zona di questa città, che conserva atmosfere di inizio secolo di nobile asburgica decaduta. Mi piacciono i suoi edifici decorosi, le palme nei giardini, quel po’ di decadenza malinconica e i rosai sfioriti dell’inverno. Ma le gambe vanno a nord, verso quell’anonimo incrocio tra Via Brigata Casale e Via Brigata Pavia, dove inizia il "ghetto".
Appena imbocco la breve discesa verso Viale Colombo, compaiono le alture del Calvario, dove la neve svela terrazzamenti e brevi radure, altrimenti invisibili. Il cielo è spugnato di cenere compatta e le acacie  velate da un flou nebbioso che accartoccia il cuore. I miasmi del Corno prendono la gola e Viale Colombo è deserto. Squallidi edifici color ocra, ruggine e pistacchio, costruiti negli anni cinquanta per gli operai in tuta blu macchiata di grasso, dove sorgeva un altro villaggio di segregazione per i duemila operai delle manifatture Ritter.
Sento odore di anni Cinquanta, di latterie con la carta moschicida appesa al soffitto e lambrette parcheggiate sotto casa. Non so perchè, ma qui mi sento a casa.  Dentro alle verande dei condomini polverosi e mal invecchiati ci sono ragni di ferro battuto e medaglioni in ceramica con l’effige del Papa Buono. Non ci sono più operai in tuta blu e mogli con le vestaglie da casa. Oggi il ghetto accoglie famiglie magrebine e nigeriani che il giorno inghiotte in qualche fabbrica del manzanese, o spedisce lungo le strade con un borsone sulle spalle a smerciare biancheria e fazzoletti di carta.
A poche centinaia di metri, le villette unifamiliari degli anni sessanta segnano la fine del "ghetto". Ricompaiono i giardini e le ville borghesi di inizio novecento della Gorizia dignitosa e sonnolenta che sopravvive a se stessa.
La coltre bianca è diventata una glassa sporca e scivolosa e piovono tristi succedanei di neve.

domenica 31 gennaio 2010

INVECE DELLA MONTAGNA




Bora rabbiosa, oggi. Dovevo andare in montagna, ma i casi della vita mi hanno trattenuto in questa città artica, ancora imbiancata dalla nevicata di ieri.
Dunque, un breve post inconsueto: insalata di pollo della Cecchi.
E’ una ricetta, ebbene sì. Ma una ricetta particolare, col profumo dello zenzero e della lentezza, che oggi ha dato luce alla mia giornata.
Quindi, partiamo. E’ un piatto povero, quindi vanno bene le parti meno pregiate del pollo, magari quelle che i supermercati, in cupi tempi di recessione, mettono in offerta sempre più spesso. Per fare economia, sarebbero ideali le alette, che però sgusciano tra le mani come anguille quando tenti di togliere loro la pelle, che renderebbe il brodo troppo grasso. Diciamo allora cosce o sovracosce, che sono più tranquille e si lasciano svestire. Per quattro bastano 3 o quattro pezzi, da spellare e sgrassare con cura. Metto il pollo a bollire con una foglia d’alloro, sedano e mezza cipolla. A parte faccio lessare due grosse patate, due carote sbucciate e rassodo due uova. In una terrina metto olive nere senza nocciolo (a me piacciono le greche kalamata) e qualche cappero sottaceto. Si può aggiungere un po’ di tonno sott’olio (basta una scatoletta da 80 gr), ma è meglio non fare pasticci e semplificare gli ingredienti per dar spazio ai sapori.
Quando il pollo, le verdure e le uova sono cotti, vanno ridotti a listerelle il primo, e a cubetti e rondelle le seconde. Si amalgama il tutto e si condisce con sale e olio e.v.o. e una bella grattugiata di zenzero fresco, che dà un tocco di esotismo a questa semplice insalata. Diluisco poi qualche cucchiaio di maionese (anche quella industriale va bene per questo scopo) con jogurt e qualche cucchiaiata del brodo di pollo, che la rende più fluida e abbatte l’apporto di grassi.

Morale della storia: un secondo davvero gradevole per 4 persone che costa complessivamente meno di cinque euro, comprensivo di un primo a base di brodo di pollo, in cui cuocere una stracciatella o qualsiasi altra pastina a scelta, perfetto per i momenti in cui le risorse ormai agli sgoccioli.

venerdì 29 gennaio 2010

ANDARE PER MONTI, A MODO MIO

EVVIVA LO SLOW TRAVEL
I rifugi
Citando il maestro Kugy, “non puoi dire di conoscere davvero una montagna se non c’hai mai dormito sopra”.
Sposo in pieno questa teoria, che ha pregio di riassumere diversi aspetti del cammino: innanzi tutto, la lentezza. Quando ci si alza all’alba, si percorrono un paio d’ore di strade o autostrade trafficate, si cammina faticosamente per cinque o sei ore, si rientra magari in coda, per sfruttare una misera giornata di libertà e poi tornare al lavoro l’indomani, non ci rendiamo in realtà un buon servizio.
La lentezza è parente stretta della consapevolezza e regala il privilegio della conoscenza: se si va troppo veloci, si coglie il rischio di sfruttarsi e di sfruttare anche il mondo che si attraversa, tornando a casa più frastornati di prima. Lo so, siamo tutti più o meno prigionieri di tempi frenetici e impegni incalzanti, io per prima, e quindi lungi da me la spocchia di auspicare ritmi e modi di vivere difficilmente praticabili; il buon Kugy era un ricco ereditiero, che poteva concedersi il lusso di non lavorare e assoldare un manipoli di valligiani per fargli da portatori e da guida su e giù per qualsiasi gruppo montuoso gli pungesse il vezzo di esplorare. Chi invece per mantenersi deve lavorare e magari tiene pure famiglia è meglio che si metta l’animo in pace: giorni e giorni di traversate alpine dormendo sotto le stelle sono un lusso che non potrà permettersi, se non negli striminziti peridi di ferie, in cui, magari, auspica legittimamente a qualche comodità in più.
Ma in città non c’è spazio per venti tesi e bianchi assoluti di neve, per sfide di ripidi percorsi e di geli ostinati, per sentieri che spariscono, inghiottiti dalla neve, e che devi ritrovare fidandoti solo di te stesso e della tua capacità di leggere e tradurre segnali impercettibili. In città non è necessario prevedere l’evolvere del tempo, in montagna è una necessità. Non ti devi preoccupare di quante risorse ti rimangono e di quante ore di luce restano per recuperare la strada buona, smarrita per aggirare un canalone di neve marcia. Non c’è avventura, in città, né modo di misurarsi davvero con sé stessi, con la fame, il freddo e la fatica. Per questo andar per monti e dormire lassù permette di immergersi completamente in una dimensione di essenzialità, di cui la vita quotidiana ci espropria.
Riassumendo: lentezza, conoscenza, essenzialità. Tutti ne abbiamo diritto, quindi perché non provarci? Perché non concedersi ogni tanto una breve parentesi di un paio di giorni di traversata alpina con sosta notturna in un rifugio? Torneremo a guardare la vita negli occhi, rifocalizzando i giusti obiettivi.
Ma ora, bando ai pistolotti di sociologia della montagna e torniamo a volare basso.
Dormire in quota ha solo pregi e pochissimi difetti: si spezzano le escursioni e così si possono adottare tempi più lenti per assaporare i percorsi come meritano; si può assistere ad albe e tramonti spettacolari, e godere di cieli stellati privi di inquinamento luminoso; si ha l’occasione di condividere con sconosciuti piaceri semplici come una minestra calda o una birra fresca, e magari fare incontri inaspettati che rimarranno impressi nel tempo; poi si sperimenta che non lavarsi, per una volta tanto, non è poi la fine del mondo, e che è molto più importante sapersi orientare e riuscire a conoscere e dosare le proprie forze.
Però si dorme in camerata e i russatori notturni ce li abbiamo a pochi centimetri dalle orecchie, senza possibilità di isolarci. Si può dormire poco e male, anche se stanchi morti, ma per una volta non è il caso di farne un dramma, visto che si viene ripagati da ben altre soddisfazioni. Per molti la mancanza di privacy è un problema, ma è molto facile farsi degli amici, o anche solo condividere esperienze e informazioni.
E’ vero, ci sono delle privazioni, ma il saldo è ampiamente positivo.
Quindi, partiamo!
I rifugi, sia privati che del CAI, sono aperti di norma dalla fine di giugno alla fine di settembre. Nelle Dolomiti e nella vicina Slovenia molti rifugi sono aperti anche d’inverno e questo è dovuto alla grande cultura escursionistica di queste zone in tutti i periodi dell’anno.
Come informarsi? Guide di carta stampata, web e passaparola: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Una volta scelta la meta e quindi il rifugio che potrebbe ospitarci, non è difficile procurarsi il numero di telefono e verificare la situazione: il rifugio è aperto? ci sono letti liberi? qual è lo stato della neve e dei percorsi? Di solito i gestori sono persone preparate e possono fornire tutte le notizie necessarie.
Cosa aspettarci da un rifugio? Bè, qui si apre un mondo: le tre zone che conosco meglio sono il territorio regionale, la Slovenia e le Dolomiti. Mi duole dirlo, ma a casa nostra i rifugi offrono le condizioni meno favorevoli: sono rigorosamente chiusi tranne che nel periodo estivo, a parte eccezioni che si contano sulle dita di una mano, e l’ospitalità è spesso carente. Mi è capitato di arrivare bagnata fradicia dopo una giornata intera di cammino sotto la pioggia e il gestore di un rifugio, che per decenza non citerò, si è rifiutato di accendere il fuoco per far asciugare abiti e membra, adducendo la scusa che non voleva “sprecare” la legna. Mi chiedo per cosa centellinasse il combustibile, visto che non poteva servire ad altro che ad accendere un fuoco in un’orrenda giornata di maltempo con temperatura di 5°. Un’altra pessima esperienza ha trasformato una splendida escursione in una malga gestita in una specie di incubo, a causa della deplorevole scortesia e supponenza da parte di un indegno gestore.
Ci sono numerose eccezioni, è ovvio, dove i gestori sono competenti, efficienti e ti fanno sentire a casa. Fra tutti citerò il Corsi, dove arrivai una sera di qualche anno fa sotto il diluvio universale: nella sala da pranzo ardeva un bel fuoco e il gestore, pur febbricitante e reduce da una caduta con conseguente distorsione al ginocchio, girava comunque per i tavoli presentandosi a tutti gli ospiti e chiedendo notizie delle escursioni in programma per l’indomani.
In Slovenia la musica è diversa: i rifugi sono una costante delle montagne di oltreconfine, sono spartani ma non manca mai il necessario, molti sono aperti anche nel periodo invernale, più spesso nei peridi festivi e nei fine settimana, e l’ospitalità è sempre gradevole. In ultimo, e la cosa non guasta, pur a fronte di servizi essenziali, i prezzi sono decisamente contenuti. Ma gli sloveni sono grandi camminatori, quindi li troverete sempre piuttosto affollati e il rischio, in alta stagione, è di non trovare posti liberi. Meglio quindi informarsi sempre in anticipo: quasi tutti riservano una parte dei letti per le prenotazioni, altrimenti vige il principio “chi prima arriva, meglio alloggia”.
Le Dolomiti sono un capitolo a parte, anche per quanto riguarda i rifugi: molti potreste confonderli con alberghi a 3 stelle per il livello di confort che offrono, alla faccia dell’essenzialità. La bellezza delle montagne fa sì che siano sempre posizionati in luoghi scenografici e di grande suggestione. Tanto per fare un esempio, il rifugio Alimonta sulle Dolomiti di Brenta offre docce calde e servizi impeccabili, camerate con "veri" piumini  e perfino camerette a due posti, una stube sempre accesa in soggiorno e cucina da manuale. Non è l’unico ad offrire tante delizie, il livello medio è comunque molto alto e i prezzi sono adeguati: una mezza pensione si aggira sui 40 euro (2009), doccia calda a parte. Comunque, non è moltissimo, se si pensa al privilegio di dormire sulle montagne più belle del mondo. Nelle Dolomiti, assai frequentate anche d’inverno, molti rifugi che riescono a risolvere il problema dell’approvvigionamento dell’acqua corrente, offrono ospitalità anche nei mesi freddi, in occasione delle festività natalizie e dei periodi di maggior afflusso turistico, così ci si può godere il lusso di una spedizione sci alpinistica o con le ciaspole in pieno febbraio.
Ed ora, cosa mettere nello zaino se si pensa di dormire in rifugio? Naturalmente tutto ciò che avete già previsto per un escursione in giornata. Per il resto, solo qualche idea sulle cose essenziali, tenendo conto che i miei non sono consigli, ma condivisione delle esperienze personali.
Del sacco lenzuolo non si può proprio fare a meno: non si dorme sul nudo materasso per rispetto altrui e per ovvie ragioni igieniche.
Poi, la lampada frontale: nella stragrande maggioranza dei rifugi la luce manca di notte, o perché vengono spenti i generatori, o perché sono alimentati a pannelli solari e l’energia va dosata. Si può usare anche una comune pila a batteria (che sia carica!), ma il vantaggio di muoversi a mani libere è indiscutibile.
Per dormire, ciascuno può regolarsi in base alle abitudini e alla stagione: personalmente uso la maglietta pulita riservata all’escursione del giorno dopo e, solo se il tempo è inclemente, un paio di pantaloni leggeri e poco ingombranti tipo tuta. Di solito non si soffre il freddo: i rifugi sono attrezzati con un numero sufficiente di coperte.
Quasi tutti i rifugi, nelle cui camerate è proibito calzare gli scarponi, offrono ciabatte di varia foggia e materiali che, ovviamente, sono utilizzate da tutti gli escursionisti. Se volete a tutti i costi le vostre, portate le più leggere e meno ingombranti che avete, ma ricordate che in quota fa freddo anche d’estate e, in generale, un ricambio di abiti caldi e asciutti non dovrebbe mancare.
Per ciò che riguarda la pulizia personale, di norma non aspettatevi di poter fare chissà quale toilette: un mini spazzolino da denti, un pettine e un piccolo asciugamano magari in microfibra per non portarselo appresso fradicio, sono sufficienti. Dove è possibile, la doccia calda dopo una giornata di duro cammino ti rimette al mondo e allora porto con me un accappatoio in microfibra di dimensioni ridottissime e che pesa pochi grammi. Ma posso stare bene lo stesso anche senza lavarmi e la cosa non mi ha mai creato alcun problema. Molti rifugi non hanno l’acqua corrente e in quel caso la pulizia personale è rinviata a data da destinarsi. In quel caso rinuncio a tutto senza grandi patemi, tranne che a lavarmi i denti. Magari in due dita d’acqua della borraccia.
Che altro? Io di solito mi porto dietro un libro, per le lunghe ore serali prima di dormire. I più penseranno che è un peso inutile e probabilmente hanno ragione, ma è la mia piccola mania e siccome lo zaino me lo porto da sola….!
Altre cose irrinunciabili non ce ne sono, a parte farmaci specifici, semmai ne aveste bisogno, o qualche altra necessità particolare: cibo e bevande li trovate in loco, dove troverete anche molto di più, ma non è certo sbagliato avere con sé qualche barretta energetica o qualche altro snack poco ingombrante per le emergenze.
Un capitolo a parte rappresentano i numerosi bivacchi presenti in quota, di cui ho purtroppo esperienze limitate, ma tutte straordinarie, come una notte indimenticabile di ferragosto al bivacco Stuparich. I locali sono assolutamente essenziali: qualche branda con materassi e niente coperte, mancano ovviamente luce ed acqua, tranne rarissime eccezioni (intendo per l’acqua) e a volte ci sono delle stufe, ma si è completamenti soli, sotto le stelle, ed è un’esperienza unica che ciascuno si merita almeno una volta nella vita. Naturalmente bisogna essere completamente autonomi per l’acqua e il cibo, bisogna provvedere a un sacco a pelo adeguato alla stagione (di notte in montagna fa freddo anche d’estate), ma non è difficile attrezzarsi adeguatamente. Aumenta solo il peso dello zaino, ma, anche in questo caso, il bilancio è positivo: si può godere il lusso della solitudine assoluta e il privilegio della più autentica essenzialità. Anche i bivacchi sono tutti censiti su guide e diversi siti web, e farne ricorso può rappresentare una buona scelta, oltre che una necessità.
I generale, curate l’essenziale e non fatevi problemi inutili: in montagna sono assolutamente necessarie buone scarpe, testa sulle spalle e cuore leggero.
A tutto il resto vi renderete conto di poter rinunciare senza rimpianti.
www.rifugi-bivacchi.com

martedì 26 gennaio 2010

1 gennaio 2010

“Capodanno ‘arround’ Gorizia”






Ancora una cupa e nebbiosa giornata di scirocco, afflitta dai postumi di un inutile S. Silvestro. Non ha senso alzarsi presto, bisogna solo sperare in una tregua delle insistenti pioviggini per poter sperare di alzare il culo dal divano e fare due passi.
La tregua arriva nel primo pomeriggio, complice l’inaspettata assenza di Nico, partito per un allenamento festivo con pranzo di squadra annesso. Sono libera di partire e di scegliere la meta, fatto che da solo mi mette di buon umore.
Manco da un bel po’ di tempo dal Monte Santo, a cui preferisco sempre il Sabotino quando ci sono solo un paio d’ore di tempo, ed è lì che decido di andare, in questa giornata che non lascia spazio a clamori di alcun genere. Quando poi mi alzo di qualche centinaio di metri fino alla gostilna Skalnica, sono ormai affogata dentro le nuvole.
Tutto è grigio e i pochi metri percorsi sull’asfalto mi inquietano, perché le auto non mi vedono, vestita di nero come sono, e non vedo l’ora di entrare nel bosco.
Su per i lunghi traversi del fianco meridionale del monte c’è solo umidità che bagna i capelli e stracci di nuvole ovattate sui magri arbusti che stillano umidità. Il mondo è invisibile, ma odora di bosco bagnato e fa caldo, fino a farmi togliere gli strati ad uno ad uno e rimanere in canottiera a sbuffare.
Quando la salita si fa più decisa, compare una palla di luce liquida e bianca e, in un attimo, mi trovo oltre le nuvole. Il solco del fiume è affogato da una spessa coltre grigia e solo la cresta del Sabotino si lascia vedere, mentre il cielo è un mare di cumuli gonfi di pioggia. Per un attimo, lame di luce plumbea attraversano le nubi per accendere le gocce di pioggia che imperlano i rami.
Il cuore batte forte per la salita e per una rapida emozione, che dura il tempo di un tornante. Poi tutto torna immobile e ovattato. Solo lo scampanio della messa di Capodanno rivela l’arrivo al santuario, gremito di fedeli. Dentro la chiesa affollata c’è una cupa penombra e un “vero” presepe con cascatelle e stagni di alluminio, pastori sbalorditi dal prodigio e tenere luci soffuse.
Vado a bermi un’aranciata tiepida e dolciastra nella vicina gostilna, che odora di pesce e del ricordo del cenone di Capodanno, tra silenziosi avventori e camerieri esausti.
Mentre avanza un crepuscolo anticipato, attraverso di nuovo il santuario sgraziato, troppo imponente e pretenzioso per questa cima scabra di duri calcari carsici, e poi scendo per un nuovo sentiero solitario, con lo sguardo incollato a terra per non scivolare sulle viscide pietre consunte.
Arrivo alla Skalnica dentro una fitta nebbia e ad un passo dalla notte, bucata solo da fari lattiginosi.


PARTENZA


Da Gorizia si entra in Solvenia dal Valico di Casa Rossa, seguendo poi le indicazioni per Bovec e Tolmin. Ormai fuori dal centro di Nova Gorica, si raggiunge un incrocio in corrispondenza del ponte sul fiume Isonzo. Trascurate le direzioni per Bovec, Tolmin e Goriska Brda, si prende la strada a destra per Sveta Gora (la nostra meta) e Lokve. Si sale con curve e tornanti fino ad una trattoria (Gostilna Skalnica) con un ampio parcheggio a destra, dove si lascia l’auto. Si prende poi la strada asfaltata in direzione di Sveta Gora (Monte Santo) e la si percorre fino alla prima croce della Via Crucis (m. 360), dove si prende a sinistra un evidente sentiero segnalato.


PERCORSO


Il sentiero, trascurata una prima deviazione a destra, attraversa lungamente e in moderata salita il versante sud del monte, fino ad un bivio segnalato, dove si prende la direzione a destra. Ora si sale con svolte e maggior pendenza per altri 200 metri di dislivello, fino a sbucare di nuovo sulla strada asfaltata. Proprio di fronte ha inizio la scalinata finale che conduce in breve al santuario a quota 681. Per la discesa, si può ripercorrere lo stesso sentiero o prendere la strada asfaltata (3 km) se, per qualche ragione, non si vuole camminare nel bosco.


CONSIDERAZIONI


Che dire: sono solo 320 metri di dislivello, poco più di una passeggiata e, personalmente, il santuario non mi ispira grande simpatia: è troppo grande, sgraziato e manca di atmosfera. Ma ha una lunga storia, la vista sul versante nord del Sabotino e sulle montagne a settentrione è grandiosa e le vestigia della 1^ Guerra mondiale sono numerose e, per gli appassionati del genere, interessanti. Insomma, perché no? Tra le escursioni “arround” Gorizia, non è la mia favorita ma non c’è ragione per non andarci, di tanto in tanto, magari completando l’escursione con il vicino Vodice.

lunedì 4 gennaio 2010

3 gennaio 2010

A ZONZO PER LA FORESTA DI TRNOVO


Arriva finalmente la prima bella giornata, dopo tanta pioggia e cupi tempi sciroccali. Nel frattempo ho divorato la costosissima guida sulla selva di Trnovo, che offre una vasta scelta di itinerari in questa incantevole foresta a due passi da casa e che ancora non conosco come merita.
Progetto un’uscita con Cassandra, affamata di solitudine e di camminate nei boschi, e il neo – montanaro Nicola, che deve testare le sue pedule nuove di pacca.
Mattinata gelida e tersa, che invita al cammino. Alle 10 e 30, dopo un robustissimo brunch, siamo pronti a partire per questo nuovo percorso sull’altopiano carsico.
La neve fa presto la sua comparsa e scintilla sotto il sole del mattino. In paese troviamo ghiaccio al suolo e scarse informazioni, che cerchiamo di raccogliere dove possiamo, visto che la guida è avara di indicazioni precise. Prendiamo uno sterrato che pare essere quello giusto e ci godiamo il silenzio del bosco innevato, rotto solo dal crepitio degli scarponi sul suolo gelato.
La neve ha appena coperto il terreno con pochi centimetri di candore, ma gli alberi e gli arbusti sono disegnati di bianco e il sole fa brillare i cristalli di neve che turbinano in aria a ogni folata di vento e volteggiano luccicando.
Bivi e trivi si susseguono senza un’indicazione e senza possibilità di orientarsi con la scarna cartina disegnata sulla guida. Poco male, visto che il paesaggio piace a tutti e il percorso non è mai troppo faticoso, con modesti saliscendi nel bosco.
Dopo un’oretta di placido cammino ci ritroviamo a Trnovo, senza aver trovato traccia del belvedere Sekulak e dell’arco di roccia e io incasso la prima sconfitta della giornata, mentre i miei compagni di cammino non sembrano delusi dal fallimento e apprezzano invece un bicchiere di the caldo e una sigaretta. Manca ancora la salita al Kuk, che potrebbe compensare il non aver centrato il primo obiettivo e raggiungiamo in auto la partenza del sentiero nella placida frazione di Rijavci.
Ancora incertezze sul percorso, ma il cielo terso e la luce potente di mezzogiorno fanno splendere l’altopiano innevato e a nessuno importa un granchè. Il sentiero corre tra muri a secco e sotto una galleria di rami imbiancati, che basta sfiorare per far scendere una leggera nevicata incongrua, sotto questo cielo di smalto.
Poi entriamo nel fitto bosco di faggi, seguendo le impronte di chi ci ha preceduto. Con un lunghissimo, ozioso anello circumnavighiamo il monte senza trovarne l’accesso e infine sbuchiamo sull’asfalto, poco sopra a Rijavci.
Luce, tepore del sole e incontri umani: siamo tornati nel mondo senza raggiungere neppure il secondo obiettivo. Poco importa: il balcone che ci si apre davanti offre un bagliore liquido in direzione dell’Adriatico con il cielo punteggiato di parapendii, mentre le Giulie sono una distesa a perdita d’occhio di bianchi denti frastagliati. Gli stomaci brontolano e nasce l’idea di berci una birra e mangiare assieme qualcosa. La Zogica è affollata, anche se sono le tre del pomeriggio.
Torniamo a casa che fa quasi buio, cotti di stanchezza e frastornati dalla luce e dal bianco abbagliante della neve.
Sto scrivendo, il giorno dopo l’uscita, al calduccio del mio studio, mentre fuori ha iniziato a nevicare debolmente. Faccio fatica a trovare le parole e a reimmergermi nella magica atmosfera della foresta innevata di ieri.
Faccio fatica perché non ero da sola e in compagnia i sensi e la mente si distaccano dalla contemplazione. Si chiacchiera, ci si preoccupa inevitabilmente del benessere altrui; tutte nobili occupazioni, ma che distraggono dal vivere il cammino come merita.
Non c’è soluzione: cerchi di trasmettere la passione per il viaggio e la natura a quelli che ami, ma poi la condivisione costa fatica ed esige il tributo della rinuncia.

PARTENZA

Da Gorizia si entra in Slovenia dal Valico di Casa Rossa, seguendo poi le indicazioni per Bovec e Tolmin. Ormai fuori dal centro di Nova Gorica, si raggiunge un incrocio in corrispondenza del ponte sul fiume Isonzo. Trascurate le direzioni per Bovec, Tolmin e Goriska Brda, si prende la strada a destra per Sveta Gora e Lokve. In corrispondenza della trattoria (Gostilna) Skalnica bisogna proseguire diritti in direzione Lokve. Si raggiunge dopo qualche chilometro la località di Trnovo, tipica borgata del Carso montano.

ESCURSIONE

Non crederete davvero che, dopo aver fallito entrambe le mete dell’escursione, mi possa sognare di darvi qualche indicazione!
Dal paese partono numerosi sterrati che consentono belle passeggiate nei dintorni: giornata libera, quindi, come nei viaggi organizzati. I boschi e le radure della zona sono incantevoli, come pure la frazione di Rijavci, che si raggiunge per la strada asfaltata (cartello) che si stacca a destra del centro del paese.
Sappiate solo che, se non si conosce bene la zona, le curate strade forestali dai tracciati pressoché infiniti sembrano tutte uguali e mancano di punti precisi di riferimento, trovandosi sempre all’interno dei fitti boschi dell’altopiano. Allontanandosi troppo senza cartina e precise indicazioni, il rischio di perdersi non è remoto.
Ma la foresta di Trnovo rimane un luogo magico in ogni stagione: io la amo senza riserve e mi fa una rabbia non conoscerla così bene come merita! Ma conto di rimediare, magari a furia di errori, com’è capitato stavolta!