lunedì 22 febbraio 2010

SOLO CIELO SOPRA LA MIA TESTA


E' trascorsa una settimana, un'intera settimana sulle Dolomiti di Sesto.
Sono fuggita presto dalle affollate piste da sci, complici il costo proibitivo dello skipass e la mia fame di solitudine.
Lunedì è una giornata perfetta per cominciare: il delirio del fine settimana è ormai passato e in cielo non si vede una nuvola. Parto da casa, sapendo solo che voglio arrivare a Prato Piazza e che i -10° non saranno un ostacolo.
Il gelido fondovalle che porta a Ponticello non raffredda il mio entusiasmo e decido che salirò da qui i 600 metri fino all'altopiano. Devo coprirmi scrupolosamente e ignorare il gelo che aggredisce le gambe: basteranno una decina di minuti di buon passo per farmi togliere giacca e cappello, mentre salgo di quota e il sole mi acceca con una vaga promessa di tepore. Solo qualche raro fondista mi raggiuge col suo fluido passo pattinato e io continuo a salire verso il frullo di una cincia e spicchi sempre più vasti di azzurro. Dalle conifere si staccano turbini di ice crystal, la povere di ghiaccio luccicante che la digitale non riesce a catturare, lasciando solo la magia di un ricordo. 
La foresta profuma di neve e di cortecce scaldata dal sole e non c'è spazio per l'impazienza dell'arrivo: il cammino è già perfezione.
Sbuco sulla grande conca assolata senza sapere che ora sia, certa solo di essere arrivata "a casa".
Per questi spazi gli occhi non bastano e le immagini non dicono l'onda lunga di commozione che annoda la gola. Tutto è bianco, morbido e lucente. L'altopiano è un piumino  meringato acceso di minuscoli bagliori e sopra la testa c'è solo cielo denso e smisurato. Continuo a camminare verso il rifugio Vallandro, faccia al sole e respiro più lento, sentendo già odore di cibi caldi e sollievo di sedere su una panca.
Lì sopra c'è lo Strudelkopf, che non è un dolce altoatesino ma il monte Specie, una modesta cupola di neve affacciata sulle Tre Cime di Lavaredo.
Un'urgenza imprevista mi spinge lassù, mentre scopro il sentiero ben battuto che non attende altro che i miei passi. Bevo e mando giù un boccone, ma non ho fame e nè sete: voglio solo continuare a camminare. Qualcuno mi precede e il cammino è dolce e senza insidie. Non sono io a camminare: è una forza pneumatica che mi solleva verso l'alto, senza sudore nè fatica. Mi chiedo se per caso ho assunto qualche farmaco, ma questo è puro doping naturale, frutto di una entusiasmo senza uguali.
Gli scenari cambiano, le prospettive si moltiplicano, ma il famoso panorama delle Tre Cime non sarà visibile fino alla fine. La croce è ormai a portata di mano e ora in cima non c'è nessuno. E' una cima modesta, solo 2300 metri, ma quel che vedo ha un sapore di ghiaccio e di calore, l'ennesima onda che attravesa il corpo senza passare per la mente.
Gli occhi non bastano, non basta l'obiettivo, non basterà il ricordo.
Arriva qualcuno per poter conservare il mio sorriso e l'orgoglio di una scoperta che non potrò condividere con nessuno. Ritorno a valle di corsa, ubriaca di bianco e di blu, per lunghi traversi lungo le pendici del Picco di Vallandro e tenui sgocciolii di disgelo. Sono stanca, affamata e ustionata. Ho solo voglia di una radler e di un minestrone e di fuggire un momento dal riverbero accecante, mescolandomi per poco con la gente e confondendomi col brusio del rifugio. Non ho voglia di parlare con nessuno, ma ho bisogno di qualcuno vicino per godermi il recente privilegio della solitudine.
Torno a valle solo quando il sole comincia a cedere e la foresta innevata ingrigisce. A Ponticello non c'è più nessuno e per mezz'ora ancora mi godo l'attesa della mia stanza  accogliente e di un thè caldo e di una doccia bollente, che smettono di essere ovvietà, ma ridiventano privilegi.
Gli altri sono rientrati dalle piste, giustamente orgogliosi dei loro successi.
Fingo di entusiasmarmi, ma non sono capace di raccontare la mia giornata.

domenica 21 febbraio 2010

SORPRESE DI CASA



Pranzo in compagnia, oggi.
Il piacere di rivedere gli amici si sovrappone alla speranza di qualche ora all'aria aperta, oggi che ha finalmente smesso di diluviare.
In attesa di raccogliere le idee dopo un'intera settimana di montagna, vi racconto di una banale domenica in città e di come la si possa trasformare in una piccola avventura.
A Lucinico (3 km da Gorizia) si può comodamente arrivare in auto, in bicicletta, e perfino a piedi, alternative tutte già sperimentate. Ma oggi, dopo aver macinato una media di dieci chilometri al giorno nell'ultima settimana, ho bisogno di qualcosa di più: partirò da casa a piedi e arriverò a destinazione via Monte Calvario. 
Ci metto un'attimo a capire che, dopo solo una settimana di assenza, in città la primavera è alle porte: le camelie di via del Poggio hanno boccioli sul punti di esplodere e il gelsomino di S. Giuseppe sta ormai sfiorendo, segno che siamo entrati nell'era di bucaneve, primule e colchici.
Il Corno è gonfio di pioggia e gorgoglia prima di tuffarsi nell'Isonzo; non puzza, oggi, ma porta con sè aria sottile di fango e di neve.
Stracci di nuvole trattengono la luce e l'azzurro, ma è primavera, non c'è nulla da fare.
In una manciata di minuti arrivo a Piedimonte e nel piccolo borgo agricolo raccolto intorno alla chiesa mi aggrediscono gli odori: odore di brodo, che sfugge dalle finestre aperte in attesa del pranzo domenicale, profumo di linfa dai tagli di un pergolato di vite, sentore di muffa e di fango dagli  angoli ombrosi.
Il sentiero parte poco sopra la chiesa, a fianco di un rivo gonfio d'acqua che si riversa a valle, e sale viscido di pioggia su per il bosco di acacie e di rovi. Ancora odori intensi di terra umida e di fauna selvatica, e poi un'esplosione di ellebori  accanto ad una solitaria cappella votiva.
Sono lontana da tutto, in un silenzio surreale.
Su per la salita sostenuta ci sono solo  impronte recenti di capriolo e grufolate di cinghiale, cespugli di pungitopo e foglie di roverella che marciscono al suolo.
Quando scollino, la pianura si apre e non so dove sono: non vedo la stele del Calvario, ma intuisco che devo puntare dritto a sud. L'incontro con la strada asfaltata segna il ritorno nel mondo conosciuto. D'ora in poi  sarà solo discesa e un cammino familiare verso le vigne  e i campi coltivati. I ruscelli esondano allagando la strada, con un gorgoglio che parla di verde e di tepore, mentre le poiane volteggiano speranzose in cerca di un partner.
Oggi si può fare a meno di qualunque cosa: ciò che è indispensabile sta tutto in un'ora e mezza di cammino solitario.

giovedì 11 febbraio 2010

11febbraio 2010

Principesse di ghiaccio e strudel salati

UhUhUh! Che delusione!
Non spendete i pesantissimi € 18,50 per "la nuova Agatha Cristie dalla Svezia": la principessa di ghiaccio di Camilla Lackberg (Farfalle Marsilio) è una ravanata galattica! Sull'onda del successo dell'osannato Larsson, i giallisti scandinavi sono fioriti come licheni nel panorama letterario contemporaneo ma, credetemi, perchè ne ho macinati a decine, pochi si salvano dalla mediocrità.
Sei al prolifico Mankell, che non stupisce, ma non manca di mestiere, sette  a Larsson, che resta un onesto giornalista, pur capace di intrecci superbi,  ma l'eccellenza va solo all'islandese Indridasson: asciutto e composto nella scrittura, lo trovo un interprete eccezionale dell'artica desolazione dell'isola dei ghiacci. Gli altri non arrivano alla sufficienza.
E la Lackberg, fra tutte, si becca un tre senza appello.
Noiosa al limite del soporifero, rimescola dialoghi scipiti e personaggi che definire scontati è un eufemismo. 458 pagine di banalità, senza un solo guizzo che meriti la spesa. Se l'avete comperato, mal per voi. Se ne avevate l'intenzione, rinunciate, a meno che non abbiate bisogno di sonniferi e il medico si rifiuti di prescriverveli.
Insomma, oggi sono delusa e anche un pò incazzata, quindi vado in cucina a tentare di dimenticare le ultime ore mal spese.
Un petto di pollo e qualche cespo di radicchio tardivo occhieggiano in attesa di riscatto, e io raccolgo la sfida: stasera strudel salato, ma a modo mio.
Detesto la pasta sfoglia: è sempre troppo unta e, farcita di ingredienti umidi, rimane molliccia anche dopo una robusta cottura in forno.Quindi, viva gli strudel e le torte salate, ma con la briseè! Dopo una consolidata esperienza, a farla a mano ci vogliono 10 minuti, ed è un investimento sulla propria manualità che vale la pena: con semplici ingredienti che abbiamo tutti in dispensa, si inventa un piatto di effetto che può risolvere un'emergenza. Un paio d'etti di farina si ammonticchiano sulla spianatoia, con un buon pizzico di sale, un uovo intero e (ahimè) un buon etto di burro freddo spezzettato. Si impasta velocemente, aiutandosi all'inizio col coltello, evitando di scaldare l'impasto che sennò tende a "bruciare" e ad indurire. Se il composto lo richiede, va aggiunta con parsimonia un pò d'acqua fredda, fino ad ottenere una pasta elastica e compatta. La palla va poi coperta con la pellicola e ficcata in frigo finchè non è pronto il ripieno.
Il solito soffritto lento e paziente stavolta va fatto con 3 o 4 scalogni, più dolci e delicati e che cuociono prima, ma può andar bene anche la cipolla, a patto che sia trattata con tutti i crismi, ossia senza MAI bruciare, sennò diventa amara. Ad avanzato stadio di cottura, diciamo dopo mezz'ora, allo scalogno si aggiunge il radicchio (un buon cespo è sufficiente) ridotto a tocchetti, più sottili alla base e un pò più larghi verso la punta. Bastano una decina di minuti, che spendiamo per rosolare in poco olio mezzo petto di pollo a dadini regolari. Saliamo entrambi gli ingedienti e li assembliamo, dando loro qualche minuto di intimità perchè imparino a conoscersi. Accendiamo il forno a 180°.
Ora ci vuole un pò di besciamella. Sì, lo so che è già un pò che spignattiamo, ma qualche cucchiaiata di legante è necessaria e prometto che basteranno pochi minuti: una grossa noce di burro va fatta sciogliere fino a sfrigolare, si lanciano due grossi cucchiai di farina, che assorbono di botto il grasso e si raggrumano in un baleno. Occhio a non far bruciare e, sempre mescolando con energia e senza perdere il governo della situazione, si versa il latte, all'inizio pochissimo per volta, lasciando assorbire prima di aggiungerne dell'altro. Si deve raggiungere una massa morbida e senza grumi (solo se siete stati pazienti e costanti nel mescolare energicamente con la frusta!) della consistenza di una crema fluida. Non è necessario aspettare i 20 minuti canonici di cottura della farina (altrimenti indigesta) perchè andrà in forno e completerà lì la cottura. Basta salare e aggiungere al pollo e al radicchio, dando cremosità al tutto, senza esagerare con la quantità: il risultato dovrà essere un composto legato e cremoso, ma non liquido.
Recuperata la palla di briseè, andremo a smatterellarla velocemente senza scaldarla su un bel pezzo di carta forno infarinato, dando una forma allungata e sottile per ottenere uno strudel. Ora basta disporre il composto e richiudere la pasta, sigillando i bordi con un velo d'acqua che fa da collante. Visto che abbiamo lavorato sulla carta, basta trasferire il tutto sulla teglia e poi dritto in forno per una mezz'ora, controllando che non scurisca troppo.
Dopo, lasciatelo riposare con calma e non tagliatelo prima che sia tiepido, così il ripieno rimane più compatto.
L'amarognolo del radicchio esalta la dolcezza e la consistenza dei bocconcini di pollo, legati morbidamente dalla crema di scalogno e dalla besciamella, la pasta briseè sarà consistente ma non stucchevole come la sfoglia.
Insomma, un trionfo di sapori e consistenze, perfetti per dimenticare Camilla Lackberg e le sue nefandezze letterarie!

mercoledì 3 febbraio 2010

RADICCHI E LENTICCHIE

Titolo del post che sembra quello di un film di Totò!
Pomeriggio libero, oggi, speso tra la conclusione di "La morte segue i Magi" di Hans Tuzzi e l'allestimento di una di quelle cene che scaldano il cuore in una gelida giornata di febbraio. Appena termino l'ultima pagina, sono già in crisi d'astinenza. Tuzzi si muove in una Milano degli anni Ottanta, del tutto estranea alla  "Milano da bere". Si alimenta di citazioni artistiche e letterarie che non hanno nulla di "colto", ma si presentano invece perfettamente inserite in un contesto narrativo che attraversa il mondo del collezionismo d'arte. La Milano del Commissario Melis è una città tetra e dolorosa, addolcita dal rimpianto del protagonista per le antiche trattorie con cucina casalinga e i perduti splendori dei palazzi umbertini, ormai colonizzati dai nuovi poteri finanziari. L'intreccio è solido, i personaggi  credibili e ben delineati. Il giallo è un pretesto per parlar d'altro, ma regge fino in fondo e accompagna in una galleria di emozioni e di  autentica poesia.
Chiudo l'ultima pagina e mi dico: e ora che faccio? Sono di nuovo orfana, come tutte le volte che  terminare un libro lascia potenti suggestioni e più domande che risposte. Bravissimo Hans!
Per tenere a bada l'inquietudine, mi invento una cenetta che scaldi le membra e il cuore. Ho ricevuto in dono con noncuranza un sacchetto di lenticchie di S. Stefano di Sessanio: chi apprezza il genere, sa che sono "le" lenticchie, quindi, pronti, via!
Una bella cipolla va fatta soffriggere come si deve, seguendo i diktat di Allan Bay: quasi un'ora di cottura lentissima con un paio di cucchiai di olio evo per sconfiggera la fibra coriacea della cipolla e trasformarla in una morbida, dolcissima massa traslucida. Ho aggiunto poi mezza bottiglia di passata di pomodoro industriale ma di buona qualità e un trito di rosmarino, salvia e timo freschi (benedetto giardino!), sale e pepe e, infine, le superbe, minuscole lenticchie rugginose (250 grammi), acqua calda fino a raggiungere una consistenza assai brodosa, e poi via di cottura lenta semicoperta. Dopo un'altra oretta (trascorsa a sbirciare le prime pagine della prossima avventura letteraria), e la zuppa è cotta. La lascio riposare, cercando tra i ripiani del frigo un'altra idea per completare la cena. Due cespi di radicchio tardivo, gorgonzola e noci: non c'è molto da ragionare per un piatto che, con poco, diventa quasi sontuoso. Divido i cespi in due e li rosolo in padella per qualche minuto con un filo d'olio e una spizzicata di sale, ammorbidisco il gorgonzola (deve essere dolce e non piccante per smorzare l'amarognolo del radicchio) e riduco grossolanamente i gherigli di noce. Passo poi il radicchio scottato in una teglia, lo farcisco con abbondante gorgonzola, ficcandolo a forza tra le costole della verdura e cospargo con la granella di noce, un filo d'olio e via in forno a 160°, coperto con un foglio di carta forno.
I venti minuti di permanenza li spendo per proseguire la lettura di "Il suggeritore", corposa opera prima di Carrisi, di cui un collega mi ha detto un gran bene.
A cena c'è profumo di orto e di sapori semplici ma ben definiti, mentre la notte ha steso una coperta blu sulle strade ancora sporche di neve.

lunedì 1 febbraio 2010

30 GENNAIO 2010


ANCORA NEVE IN CITTA'

Ha nevicato di nuovo, stanotte, e stamattina, un tuffo al cuore.
Esco a metà pomeriggio, dopo aver assolto ai tediosi compiti del sabato mattina e obbedisco al consueto richiamo che mi porta verso Straccis. Non c’è nulla da fare: potrei andare altrove, in una qualunque altra zona di questa città, che conserva atmosfere di inizio secolo di nobile asburgica decaduta. Mi piacciono i suoi edifici decorosi, le palme nei giardini, quel po’ di decadenza malinconica e i rosai sfioriti dell’inverno. Ma le gambe vanno a nord, verso quell’anonimo incrocio tra Via Brigata Casale e Via Brigata Pavia, dove inizia il "ghetto".
Appena imbocco la breve discesa verso Viale Colombo, compaiono le alture del Calvario, dove la neve svela terrazzamenti e brevi radure, altrimenti invisibili. Il cielo è spugnato di cenere compatta e le acacie  velate da un flou nebbioso che accartoccia il cuore. I miasmi del Corno prendono la gola e Viale Colombo è deserto. Squallidi edifici color ocra, ruggine e pistacchio, costruiti negli anni cinquanta per gli operai in tuta blu macchiata di grasso, dove sorgeva un altro villaggio di segregazione per i duemila operai delle manifatture Ritter.
Sento odore di anni Cinquanta, di latterie con la carta moschicida appesa al soffitto e lambrette parcheggiate sotto casa. Non so perchè, ma qui mi sento a casa.  Dentro alle verande dei condomini polverosi e mal invecchiati ci sono ragni di ferro battuto e medaglioni in ceramica con l’effige del Papa Buono. Non ci sono più operai in tuta blu e mogli con le vestaglie da casa. Oggi il ghetto accoglie famiglie magrebine e nigeriani che il giorno inghiotte in qualche fabbrica del manzanese, o spedisce lungo le strade con un borsone sulle spalle a smerciare biancheria e fazzoletti di carta.
A poche centinaia di metri, le villette unifamiliari degli anni sessanta segnano la fine del "ghetto". Ricompaiono i giardini e le ville borghesi di inizio novecento della Gorizia dignitosa e sonnolenta che sopravvive a se stessa.
La coltre bianca è diventata una glassa sporca e scivolosa e piovono tristi succedanei di neve.