domenica 31 gennaio 2010

INVECE DELLA MONTAGNA




Bora rabbiosa, oggi. Dovevo andare in montagna, ma i casi della vita mi hanno trattenuto in questa città artica, ancora imbiancata dalla nevicata di ieri.
Dunque, un breve post inconsueto: insalata di pollo della Cecchi.
E’ una ricetta, ebbene sì. Ma una ricetta particolare, col profumo dello zenzero e della lentezza, che oggi ha dato luce alla mia giornata.
Quindi, partiamo. E’ un piatto povero, quindi vanno bene le parti meno pregiate del pollo, magari quelle che i supermercati, in cupi tempi di recessione, mettono in offerta sempre più spesso. Per fare economia, sarebbero ideali le alette, che però sgusciano tra le mani come anguille quando tenti di togliere loro la pelle, che renderebbe il brodo troppo grasso. Diciamo allora cosce o sovracosce, che sono più tranquille e si lasciano svestire. Per quattro bastano 3 o quattro pezzi, da spellare e sgrassare con cura. Metto il pollo a bollire con una foglia d’alloro, sedano e mezza cipolla. A parte faccio lessare due grosse patate, due carote sbucciate e rassodo due uova. In una terrina metto olive nere senza nocciolo (a me piacciono le greche kalamata) e qualche cappero sottaceto. Si può aggiungere un po’ di tonno sott’olio (basta una scatoletta da 80 gr), ma è meglio non fare pasticci e semplificare gli ingredienti per dar spazio ai sapori.
Quando il pollo, le verdure e le uova sono cotti, vanno ridotti a listerelle il primo, e a cubetti e rondelle le seconde. Si amalgama il tutto e si condisce con sale e olio e.v.o. e una bella grattugiata di zenzero fresco, che dà un tocco di esotismo a questa semplice insalata. Diluisco poi qualche cucchiaio di maionese (anche quella industriale va bene per questo scopo) con jogurt e qualche cucchiaiata del brodo di pollo, che la rende più fluida e abbatte l’apporto di grassi.

Morale della storia: un secondo davvero gradevole per 4 persone che costa complessivamente meno di cinque euro, comprensivo di un primo a base di brodo di pollo, in cui cuocere una stracciatella o qualsiasi altra pastina a scelta, perfetto per i momenti in cui le risorse ormai agli sgoccioli.

venerdì 29 gennaio 2010

ANDARE PER MONTI, A MODO MIO

EVVIVA LO SLOW TRAVEL
I rifugi
Citando il maestro Kugy, “non puoi dire di conoscere davvero una montagna se non c’hai mai dormito sopra”.
Sposo in pieno questa teoria, che ha pregio di riassumere diversi aspetti del cammino: innanzi tutto, la lentezza. Quando ci si alza all’alba, si percorrono un paio d’ore di strade o autostrade trafficate, si cammina faticosamente per cinque o sei ore, si rientra magari in coda, per sfruttare una misera giornata di libertà e poi tornare al lavoro l’indomani, non ci rendiamo in realtà un buon servizio.
La lentezza è parente stretta della consapevolezza e regala il privilegio della conoscenza: se si va troppo veloci, si coglie il rischio di sfruttarsi e di sfruttare anche il mondo che si attraversa, tornando a casa più frastornati di prima. Lo so, siamo tutti più o meno prigionieri di tempi frenetici e impegni incalzanti, io per prima, e quindi lungi da me la spocchia di auspicare ritmi e modi di vivere difficilmente praticabili; il buon Kugy era un ricco ereditiero, che poteva concedersi il lusso di non lavorare e assoldare un manipoli di valligiani per fargli da portatori e da guida su e giù per qualsiasi gruppo montuoso gli pungesse il vezzo di esplorare. Chi invece per mantenersi deve lavorare e magari tiene pure famiglia è meglio che si metta l’animo in pace: giorni e giorni di traversate alpine dormendo sotto le stelle sono un lusso che non potrà permettersi, se non negli striminziti peridi di ferie, in cui, magari, auspica legittimamente a qualche comodità in più.
Ma in città non c’è spazio per venti tesi e bianchi assoluti di neve, per sfide di ripidi percorsi e di geli ostinati, per sentieri che spariscono, inghiottiti dalla neve, e che devi ritrovare fidandoti solo di te stesso e della tua capacità di leggere e tradurre segnali impercettibili. In città non è necessario prevedere l’evolvere del tempo, in montagna è una necessità. Non ti devi preoccupare di quante risorse ti rimangono e di quante ore di luce restano per recuperare la strada buona, smarrita per aggirare un canalone di neve marcia. Non c’è avventura, in città, né modo di misurarsi davvero con sé stessi, con la fame, il freddo e la fatica. Per questo andar per monti e dormire lassù permette di immergersi completamente in una dimensione di essenzialità, di cui la vita quotidiana ci espropria.
Riassumendo: lentezza, conoscenza, essenzialità. Tutti ne abbiamo diritto, quindi perché non provarci? Perché non concedersi ogni tanto una breve parentesi di un paio di giorni di traversata alpina con sosta notturna in un rifugio? Torneremo a guardare la vita negli occhi, rifocalizzando i giusti obiettivi.
Ma ora, bando ai pistolotti di sociologia della montagna e torniamo a volare basso.
Dormire in quota ha solo pregi e pochissimi difetti: si spezzano le escursioni e così si possono adottare tempi più lenti per assaporare i percorsi come meritano; si può assistere ad albe e tramonti spettacolari, e godere di cieli stellati privi di inquinamento luminoso; si ha l’occasione di condividere con sconosciuti piaceri semplici come una minestra calda o una birra fresca, e magari fare incontri inaspettati che rimarranno impressi nel tempo; poi si sperimenta che non lavarsi, per una volta tanto, non è poi la fine del mondo, e che è molto più importante sapersi orientare e riuscire a conoscere e dosare le proprie forze.
Però si dorme in camerata e i russatori notturni ce li abbiamo a pochi centimetri dalle orecchie, senza possibilità di isolarci. Si può dormire poco e male, anche se stanchi morti, ma per una volta non è il caso di farne un dramma, visto che si viene ripagati da ben altre soddisfazioni. Per molti la mancanza di privacy è un problema, ma è molto facile farsi degli amici, o anche solo condividere esperienze e informazioni.
E’ vero, ci sono delle privazioni, ma il saldo è ampiamente positivo.
Quindi, partiamo!
I rifugi, sia privati che del CAI, sono aperti di norma dalla fine di giugno alla fine di settembre. Nelle Dolomiti e nella vicina Slovenia molti rifugi sono aperti anche d’inverno e questo è dovuto alla grande cultura escursionistica di queste zone in tutti i periodi dell’anno.
Come informarsi? Guide di carta stampata, web e passaparola: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Una volta scelta la meta e quindi il rifugio che potrebbe ospitarci, non è difficile procurarsi il numero di telefono e verificare la situazione: il rifugio è aperto? ci sono letti liberi? qual è lo stato della neve e dei percorsi? Di solito i gestori sono persone preparate e possono fornire tutte le notizie necessarie.
Cosa aspettarci da un rifugio? Bè, qui si apre un mondo: le tre zone che conosco meglio sono il territorio regionale, la Slovenia e le Dolomiti. Mi duole dirlo, ma a casa nostra i rifugi offrono le condizioni meno favorevoli: sono rigorosamente chiusi tranne che nel periodo estivo, a parte eccezioni che si contano sulle dita di una mano, e l’ospitalità è spesso carente. Mi è capitato di arrivare bagnata fradicia dopo una giornata intera di cammino sotto la pioggia e il gestore di un rifugio, che per decenza non citerò, si è rifiutato di accendere il fuoco per far asciugare abiti e membra, adducendo la scusa che non voleva “sprecare” la legna. Mi chiedo per cosa centellinasse il combustibile, visto che non poteva servire ad altro che ad accendere un fuoco in un’orrenda giornata di maltempo con temperatura di 5°. Un’altra pessima esperienza ha trasformato una splendida escursione in una malga gestita in una specie di incubo, a causa della deplorevole scortesia e supponenza da parte di un indegno gestore.
Ci sono numerose eccezioni, è ovvio, dove i gestori sono competenti, efficienti e ti fanno sentire a casa. Fra tutti citerò il Corsi, dove arrivai una sera di qualche anno fa sotto il diluvio universale: nella sala da pranzo ardeva un bel fuoco e il gestore, pur febbricitante e reduce da una caduta con conseguente distorsione al ginocchio, girava comunque per i tavoli presentandosi a tutti gli ospiti e chiedendo notizie delle escursioni in programma per l’indomani.
In Slovenia la musica è diversa: i rifugi sono una costante delle montagne di oltreconfine, sono spartani ma non manca mai il necessario, molti sono aperti anche nel periodo invernale, più spesso nei peridi festivi e nei fine settimana, e l’ospitalità è sempre gradevole. In ultimo, e la cosa non guasta, pur a fronte di servizi essenziali, i prezzi sono decisamente contenuti. Ma gli sloveni sono grandi camminatori, quindi li troverete sempre piuttosto affollati e il rischio, in alta stagione, è di non trovare posti liberi. Meglio quindi informarsi sempre in anticipo: quasi tutti riservano una parte dei letti per le prenotazioni, altrimenti vige il principio “chi prima arriva, meglio alloggia”.
Le Dolomiti sono un capitolo a parte, anche per quanto riguarda i rifugi: molti potreste confonderli con alberghi a 3 stelle per il livello di confort che offrono, alla faccia dell’essenzialità. La bellezza delle montagne fa sì che siano sempre posizionati in luoghi scenografici e di grande suggestione. Tanto per fare un esempio, il rifugio Alimonta sulle Dolomiti di Brenta offre docce calde e servizi impeccabili, camerate con "veri" piumini  e perfino camerette a due posti, una stube sempre accesa in soggiorno e cucina da manuale. Non è l’unico ad offrire tante delizie, il livello medio è comunque molto alto e i prezzi sono adeguati: una mezza pensione si aggira sui 40 euro (2009), doccia calda a parte. Comunque, non è moltissimo, se si pensa al privilegio di dormire sulle montagne più belle del mondo. Nelle Dolomiti, assai frequentate anche d’inverno, molti rifugi che riescono a risolvere il problema dell’approvvigionamento dell’acqua corrente, offrono ospitalità anche nei mesi freddi, in occasione delle festività natalizie e dei periodi di maggior afflusso turistico, così ci si può godere il lusso di una spedizione sci alpinistica o con le ciaspole in pieno febbraio.
Ed ora, cosa mettere nello zaino se si pensa di dormire in rifugio? Naturalmente tutto ciò che avete già previsto per un escursione in giornata. Per il resto, solo qualche idea sulle cose essenziali, tenendo conto che i miei non sono consigli, ma condivisione delle esperienze personali.
Del sacco lenzuolo non si può proprio fare a meno: non si dorme sul nudo materasso per rispetto altrui e per ovvie ragioni igieniche.
Poi, la lampada frontale: nella stragrande maggioranza dei rifugi la luce manca di notte, o perché vengono spenti i generatori, o perché sono alimentati a pannelli solari e l’energia va dosata. Si può usare anche una comune pila a batteria (che sia carica!), ma il vantaggio di muoversi a mani libere è indiscutibile.
Per dormire, ciascuno può regolarsi in base alle abitudini e alla stagione: personalmente uso la maglietta pulita riservata all’escursione del giorno dopo e, solo se il tempo è inclemente, un paio di pantaloni leggeri e poco ingombranti tipo tuta. Di solito non si soffre il freddo: i rifugi sono attrezzati con un numero sufficiente di coperte.
Quasi tutti i rifugi, nelle cui camerate è proibito calzare gli scarponi, offrono ciabatte di varia foggia e materiali che, ovviamente, sono utilizzate da tutti gli escursionisti. Se volete a tutti i costi le vostre, portate le più leggere e meno ingombranti che avete, ma ricordate che in quota fa freddo anche d’estate e, in generale, un ricambio di abiti caldi e asciutti non dovrebbe mancare.
Per ciò che riguarda la pulizia personale, di norma non aspettatevi di poter fare chissà quale toilette: un mini spazzolino da denti, un pettine e un piccolo asciugamano magari in microfibra per non portarselo appresso fradicio, sono sufficienti. Dove è possibile, la doccia calda dopo una giornata di duro cammino ti rimette al mondo e allora porto con me un accappatoio in microfibra di dimensioni ridottissime e che pesa pochi grammi. Ma posso stare bene lo stesso anche senza lavarmi e la cosa non mi ha mai creato alcun problema. Molti rifugi non hanno l’acqua corrente e in quel caso la pulizia personale è rinviata a data da destinarsi. In quel caso rinuncio a tutto senza grandi patemi, tranne che a lavarmi i denti. Magari in due dita d’acqua della borraccia.
Che altro? Io di solito mi porto dietro un libro, per le lunghe ore serali prima di dormire. I più penseranno che è un peso inutile e probabilmente hanno ragione, ma è la mia piccola mania e siccome lo zaino me lo porto da sola….!
Altre cose irrinunciabili non ce ne sono, a parte farmaci specifici, semmai ne aveste bisogno, o qualche altra necessità particolare: cibo e bevande li trovate in loco, dove troverete anche molto di più, ma non è certo sbagliato avere con sé qualche barretta energetica o qualche altro snack poco ingombrante per le emergenze.
Un capitolo a parte rappresentano i numerosi bivacchi presenti in quota, di cui ho purtroppo esperienze limitate, ma tutte straordinarie, come una notte indimenticabile di ferragosto al bivacco Stuparich. I locali sono assolutamente essenziali: qualche branda con materassi e niente coperte, mancano ovviamente luce ed acqua, tranne rarissime eccezioni (intendo per l’acqua) e a volte ci sono delle stufe, ma si è completamenti soli, sotto le stelle, ed è un’esperienza unica che ciascuno si merita almeno una volta nella vita. Naturalmente bisogna essere completamente autonomi per l’acqua e il cibo, bisogna provvedere a un sacco a pelo adeguato alla stagione (di notte in montagna fa freddo anche d’estate), ma non è difficile attrezzarsi adeguatamente. Aumenta solo il peso dello zaino, ma, anche in questo caso, il bilancio è positivo: si può godere il lusso della solitudine assoluta e il privilegio della più autentica essenzialità. Anche i bivacchi sono tutti censiti su guide e diversi siti web, e farne ricorso può rappresentare una buona scelta, oltre che una necessità.
I generale, curate l’essenziale e non fatevi problemi inutili: in montagna sono assolutamente necessarie buone scarpe, testa sulle spalle e cuore leggero.
A tutto il resto vi renderete conto di poter rinunciare senza rimpianti.
www.rifugi-bivacchi.com

martedì 26 gennaio 2010

1 gennaio 2010

“Capodanno ‘arround’ Gorizia”






Ancora una cupa e nebbiosa giornata di scirocco, afflitta dai postumi di un inutile S. Silvestro. Non ha senso alzarsi presto, bisogna solo sperare in una tregua delle insistenti pioviggini per poter sperare di alzare il culo dal divano e fare due passi.
La tregua arriva nel primo pomeriggio, complice l’inaspettata assenza di Nico, partito per un allenamento festivo con pranzo di squadra annesso. Sono libera di partire e di scegliere la meta, fatto che da solo mi mette di buon umore.
Manco da un bel po’ di tempo dal Monte Santo, a cui preferisco sempre il Sabotino quando ci sono solo un paio d’ore di tempo, ed è lì che decido di andare, in questa giornata che non lascia spazio a clamori di alcun genere. Quando poi mi alzo di qualche centinaio di metri fino alla gostilna Skalnica, sono ormai affogata dentro le nuvole.
Tutto è grigio e i pochi metri percorsi sull’asfalto mi inquietano, perché le auto non mi vedono, vestita di nero come sono, e non vedo l’ora di entrare nel bosco.
Su per i lunghi traversi del fianco meridionale del monte c’è solo umidità che bagna i capelli e stracci di nuvole ovattate sui magri arbusti che stillano umidità. Il mondo è invisibile, ma odora di bosco bagnato e fa caldo, fino a farmi togliere gli strati ad uno ad uno e rimanere in canottiera a sbuffare.
Quando la salita si fa più decisa, compare una palla di luce liquida e bianca e, in un attimo, mi trovo oltre le nuvole. Il solco del fiume è affogato da una spessa coltre grigia e solo la cresta del Sabotino si lascia vedere, mentre il cielo è un mare di cumuli gonfi di pioggia. Per un attimo, lame di luce plumbea attraversano le nubi per accendere le gocce di pioggia che imperlano i rami.
Il cuore batte forte per la salita e per una rapida emozione, che dura il tempo di un tornante. Poi tutto torna immobile e ovattato. Solo lo scampanio della messa di Capodanno rivela l’arrivo al santuario, gremito di fedeli. Dentro la chiesa affollata c’è una cupa penombra e un “vero” presepe con cascatelle e stagni di alluminio, pastori sbalorditi dal prodigio e tenere luci soffuse.
Vado a bermi un’aranciata tiepida e dolciastra nella vicina gostilna, che odora di pesce e del ricordo del cenone di Capodanno, tra silenziosi avventori e camerieri esausti.
Mentre avanza un crepuscolo anticipato, attraverso di nuovo il santuario sgraziato, troppo imponente e pretenzioso per questa cima scabra di duri calcari carsici, e poi scendo per un nuovo sentiero solitario, con lo sguardo incollato a terra per non scivolare sulle viscide pietre consunte.
Arrivo alla Skalnica dentro una fitta nebbia e ad un passo dalla notte, bucata solo da fari lattiginosi.


PARTENZA


Da Gorizia si entra in Solvenia dal Valico di Casa Rossa, seguendo poi le indicazioni per Bovec e Tolmin. Ormai fuori dal centro di Nova Gorica, si raggiunge un incrocio in corrispondenza del ponte sul fiume Isonzo. Trascurate le direzioni per Bovec, Tolmin e Goriska Brda, si prende la strada a destra per Sveta Gora (la nostra meta) e Lokve. Si sale con curve e tornanti fino ad una trattoria (Gostilna Skalnica) con un ampio parcheggio a destra, dove si lascia l’auto. Si prende poi la strada asfaltata in direzione di Sveta Gora (Monte Santo) e la si percorre fino alla prima croce della Via Crucis (m. 360), dove si prende a sinistra un evidente sentiero segnalato.


PERCORSO


Il sentiero, trascurata una prima deviazione a destra, attraversa lungamente e in moderata salita il versante sud del monte, fino ad un bivio segnalato, dove si prende la direzione a destra. Ora si sale con svolte e maggior pendenza per altri 200 metri di dislivello, fino a sbucare di nuovo sulla strada asfaltata. Proprio di fronte ha inizio la scalinata finale che conduce in breve al santuario a quota 681. Per la discesa, si può ripercorrere lo stesso sentiero o prendere la strada asfaltata (3 km) se, per qualche ragione, non si vuole camminare nel bosco.


CONSIDERAZIONI


Che dire: sono solo 320 metri di dislivello, poco più di una passeggiata e, personalmente, il santuario non mi ispira grande simpatia: è troppo grande, sgraziato e manca di atmosfera. Ma ha una lunga storia, la vista sul versante nord del Sabotino e sulle montagne a settentrione è grandiosa e le vestigia della 1^ Guerra mondiale sono numerose e, per gli appassionati del genere, interessanti. Insomma, perché no? Tra le escursioni “arround” Gorizia, non è la mia favorita ma non c’è ragione per non andarci, di tanto in tanto, magari completando l’escursione con il vicino Vodice.

lunedì 4 gennaio 2010

3 gennaio 2010

A ZONZO PER LA FORESTA DI TRNOVO


Arriva finalmente la prima bella giornata, dopo tanta pioggia e cupi tempi sciroccali. Nel frattempo ho divorato la costosissima guida sulla selva di Trnovo, che offre una vasta scelta di itinerari in questa incantevole foresta a due passi da casa e che ancora non conosco come merita.
Progetto un’uscita con Cassandra, affamata di solitudine e di camminate nei boschi, e il neo – montanaro Nicola, che deve testare le sue pedule nuove di pacca.
Mattinata gelida e tersa, che invita al cammino. Alle 10 e 30, dopo un robustissimo brunch, siamo pronti a partire per questo nuovo percorso sull’altopiano carsico.
La neve fa presto la sua comparsa e scintilla sotto il sole del mattino. In paese troviamo ghiaccio al suolo e scarse informazioni, che cerchiamo di raccogliere dove possiamo, visto che la guida è avara di indicazioni precise. Prendiamo uno sterrato che pare essere quello giusto e ci godiamo il silenzio del bosco innevato, rotto solo dal crepitio degli scarponi sul suolo gelato.
La neve ha appena coperto il terreno con pochi centimetri di candore, ma gli alberi e gli arbusti sono disegnati di bianco e il sole fa brillare i cristalli di neve che turbinano in aria a ogni folata di vento e volteggiano luccicando.
Bivi e trivi si susseguono senza un’indicazione e senza possibilità di orientarsi con la scarna cartina disegnata sulla guida. Poco male, visto che il paesaggio piace a tutti e il percorso non è mai troppo faticoso, con modesti saliscendi nel bosco.
Dopo un’oretta di placido cammino ci ritroviamo a Trnovo, senza aver trovato traccia del belvedere Sekulak e dell’arco di roccia e io incasso la prima sconfitta della giornata, mentre i miei compagni di cammino non sembrano delusi dal fallimento e apprezzano invece un bicchiere di the caldo e una sigaretta. Manca ancora la salita al Kuk, che potrebbe compensare il non aver centrato il primo obiettivo e raggiungiamo in auto la partenza del sentiero nella placida frazione di Rijavci.
Ancora incertezze sul percorso, ma il cielo terso e la luce potente di mezzogiorno fanno splendere l’altopiano innevato e a nessuno importa un granchè. Il sentiero corre tra muri a secco e sotto una galleria di rami imbiancati, che basta sfiorare per far scendere una leggera nevicata incongrua, sotto questo cielo di smalto.
Poi entriamo nel fitto bosco di faggi, seguendo le impronte di chi ci ha preceduto. Con un lunghissimo, ozioso anello circumnavighiamo il monte senza trovarne l’accesso e infine sbuchiamo sull’asfalto, poco sopra a Rijavci.
Luce, tepore del sole e incontri umani: siamo tornati nel mondo senza raggiungere neppure il secondo obiettivo. Poco importa: il balcone che ci si apre davanti offre un bagliore liquido in direzione dell’Adriatico con il cielo punteggiato di parapendii, mentre le Giulie sono una distesa a perdita d’occhio di bianchi denti frastagliati. Gli stomaci brontolano e nasce l’idea di berci una birra e mangiare assieme qualcosa. La Zogica è affollata, anche se sono le tre del pomeriggio.
Torniamo a casa che fa quasi buio, cotti di stanchezza e frastornati dalla luce e dal bianco abbagliante della neve.
Sto scrivendo, il giorno dopo l’uscita, al calduccio del mio studio, mentre fuori ha iniziato a nevicare debolmente. Faccio fatica a trovare le parole e a reimmergermi nella magica atmosfera della foresta innevata di ieri.
Faccio fatica perché non ero da sola e in compagnia i sensi e la mente si distaccano dalla contemplazione. Si chiacchiera, ci si preoccupa inevitabilmente del benessere altrui; tutte nobili occupazioni, ma che distraggono dal vivere il cammino come merita.
Non c’è soluzione: cerchi di trasmettere la passione per il viaggio e la natura a quelli che ami, ma poi la condivisione costa fatica ed esige il tributo della rinuncia.

PARTENZA

Da Gorizia si entra in Slovenia dal Valico di Casa Rossa, seguendo poi le indicazioni per Bovec e Tolmin. Ormai fuori dal centro di Nova Gorica, si raggiunge un incrocio in corrispondenza del ponte sul fiume Isonzo. Trascurate le direzioni per Bovec, Tolmin e Goriska Brda, si prende la strada a destra per Sveta Gora e Lokve. In corrispondenza della trattoria (Gostilna) Skalnica bisogna proseguire diritti in direzione Lokve. Si raggiunge dopo qualche chilometro la località di Trnovo, tipica borgata del Carso montano.

ESCURSIONE

Non crederete davvero che, dopo aver fallito entrambe le mete dell’escursione, mi possa sognare di darvi qualche indicazione!
Dal paese partono numerosi sterrati che consentono belle passeggiate nei dintorni: giornata libera, quindi, come nei viaggi organizzati. I boschi e le radure della zona sono incantevoli, come pure la frazione di Rijavci, che si raggiunge per la strada asfaltata (cartello) che si stacca a destra del centro del paese.
Sappiate solo che, se non si conosce bene la zona, le curate strade forestali dai tracciati pressoché infiniti sembrano tutte uguali e mancano di punti precisi di riferimento, trovandosi sempre all’interno dei fitti boschi dell’altopiano. Allontanandosi troppo senza cartina e precise indicazioni, il rischio di perdersi non è remoto.
Ma la foresta di Trnovo rimane un luogo magico in ogni stagione: io la amo senza riserve e mi fa una rabbia non conoscerla così bene come merita! Ma conto di rimediare, magari a furia di errori, com’è capitato stavolta!