domenica 27 dicembre 2009

26 dicembre 2009

“S. Stefano sui monti di casa”


Far colazione al bar, sabato mattina, con la compagnia della rassegna stampa locale, scorpacciata serale di stupidaggini con “Agrodolce” e “Un posto al sole” spalmata sul divano, camminare a S. Stefano e a Capodanno: questi sono alcuni dei piaceri che rendono sopportabile la mia vita e ai quali non rinuncio se non per ragioni di pubblico interesse.
Nico ha deciso di venire con me, oggi: non saprò mai se per interesse autentico o per far piacere a me, ma non indagherò. La meta è vicina e di modesto impegno fisico, ma il Veliki Rob è sempre una cimetta gradevole e poi mi prude l’idea di arrivare fino al Kucelj e magari provare a rientrare con un anello.
Giornata coperta con poca gente in giro, oggi che tutti se ne stanno tranquilli sul divano a smaltire gli eccessi calorici di queste frenetiche giornate natalizie. Io e il mio occasionale compagno di cammino saliamo invece a Trnovo, mentre una fredda luce d’acciaio ci piove addosso.
Nico è intabarrato come per una spedizione d’alta quota, alla faccia delle temperature primaverili di questo strano dicembre.
Saliamo in silenzio per l’umido bosco che conduce alla cima rocciosa del Veliki Rob. Oggi è “slow travel”, in tutti i sensi: passi lenti, poco sudore, poche parole e, finalmente in cima, spazi aperti e tutta la regione davanti agli occhi. E’ un belvedere grandioso quello che ci spetta, seduti su queste guglie calcaree che precipitano nella valle del Vipacco con un salto di mille metri, mentre a nord è tutta salita di boschi spogli e ingrigiti fino alle Alpi Giulie. Beviamo tranquilli un sorso di the, guardando a est la nostra prossima meta.
Saliscendi tra erba secca e cupi boschi di conifere, sempre affacciati sull’orlo del bastione della selva di Trnovo. Si guarda l’Adriatico, pochi chilometri a sud, una distesa di piombo liquido, e poi, in direzione opposta, le fortezze delle Giulie imbiancate, camminando sempre in bilico tra due mondi, mentre il grido di una ghiandaia si spegna all’arrivo di un grosso rapace, forse una poiana. Il resto è silenzio e luce grigia e ancora saliscendi, sospesi sul bordo dell’altopiano. Non abbiamo ancora incontrato un’anima, ma sul Kucelj si vedono sagome in movimento.
Ce l’abbiamo davanti, ormai, una cupola erbosa percorsa da calcari e bassi ginepri; potremmo essere in Croazia, in Macedonia o in Grecia. Stesse erba dura e tagliente, stesse rocce bianche e tormentate, stessa vegetazione spazzata dal vento: Alpi Dinariche, Balcani, oriente. Tutto incomincia qui e porta inesorabilmente verso levante, verso i minareti e le tormentate repubbliche dell’ex Jugoslavia, una manciata di mondi in bilico, anch’essi, tra Mediterraneo, aspre montagne e pianura pannonica.
In cima troviamo qualche camminatore solitario e due coppie di sloveni loquaci con cui è piacevole scambiare due chiacchiere e farsi scattare la foto di vetta, io e mio figlio, una strana coppia di escursionisti.
Lui mi fa notare che quando chiacchiero con i cugini sloveni mi metto a parlare con accento russo. Ridiamo, mentre cerchiamo un posticino sottovento per mangiare un panino, guardando la pianura e il Veliki Rob che sembra lontanissimo.
Grazie alle indicazioni dei cugini sloveni, torniamo indietro con un nuovo percorso su makadan, che, con un lungo giro un po’ ozioso, ci riporta al punto di partenza. I boschi di Trnovo regalano sempre silenzi assoluti di faggi secolari e rocce muschiose. Sono boschi fatati, e anche Nico non si sottrae alla magia, anche se questa è forse la stagione più avara di luce e di colori.
Torniamo a casa, nel calduccio dell’auto, io che tengo a bada la gioia incontenibile di aver diviso la montagna con qualcuno di prezioso, mentre lui sembra solo stanco, ma chissa?! Chi può dire cosa si celi dietro i silenzi di un ventenne!?!

giovedì 15 ottobre 2009

14 ottobre 2009 sul Monte Blegos


“Caccia grossa in Slovenia”

Ancora voglia di montagna, complice una gelido anticiclone di inizio autunno e il consueto prurito alle gambe. Una giornata di ferie infrasettimanale amplifica il piacere di partire, per tornare ai miei amati larici incendiati dal sole.
Ma, come spesso mi accade durante le poche ore che precedono la partenza, viro con un’ardita manovra dai fasti del lago Bordaglia all’incognita del monte Blegos, che offre come stimolo la novità (non ci sono mai andata e ho spesso snobbato la zona), ma soprattutto gli “uhuhuhu” e gli “ahahaha” della Dottoressa delle cime per le montagne di porcini che è riuscita ad accaparrarsi in poche ore la scorsa domenica.
Così, non prudono solo le gambe, ma anche le mani all’idea di affondarle nell’umido sottobosco di muschio e foglie di faggio ed estrarre come tesori i meravigliosi miceti cicciotti e profumati, pronti per essere spadellati e condivisi con gli amici più cari.
Così si parte alle 8 di mercoledì con temperature che nella vicina Slovenia si abbassano fino a 3°. Ma la verde vallata che porta a Cerkno è il consueto susseguirsi di cartoline di bucolica bellezza, accese dai colori autunnali e dal freddo cielo di ottobre.
Arriviamo in breve alla meta e, usciti dall’abitacolo, il gelo della prima mattina prende quasi alla gola, ma basta andare dietro un faggio per fare pipì che compare la prima coppia di porcini sodi e profumati, tanto per dare il benvenuto!
Lo sterrato sale dolcemente nel folto bosco, ma la mia attenzione oggi è calamitata dal tappeto di foglie ai lati della carrareccia; i pendii sono troppo ripidi per consentire qualche divagazione, cosicchè non rimane che godersi i colori accesi dei faggi e l’aria di cristallo, annusare il freddo odor di muschio e ascoltare il grido da carrucola arrugginita della ghiandaia.
Poi si arriva ad un improvvisa radura ancora verde, dove ha deciso di stabilirsi una folta colonia di amanita muscaria: saranno una cinquantina, grandi come il palmo di una mano, disposte a file, a gruppetti, o sparpagliate casualmente qua e là, macchie rosse e arancioni puntinate di bianco, belle come in una favola di Biancaneve e i sette nani.
Usciti dall’incantesimo, saliamo per sentiero in un altro bosco delle meraviglie, ma lo scopriremo davvero solo al ritorno. Anche qui non facciamo deviazioni, per raggiungere la cima il prima possibile e poi dedicarci alla caccia in discesa con meno fatica.
Nulla di monotono in questo bosco aperto e silenzioso, con le foglie dorate dei faggi che cadono al suolo, dove arrugginiscono frusciando sotto gli scarponi. A tratti si aprono fugaci visuali del Triglav imbiancato, ma le rabbiose raffiche di bora ci trasportano in un’atmosfera artica.
Il rifugio appare all’improvviso, mentre rabbrividisce sotto la forza del vento, che dilaga sul nudo crinale. Il Blegos sta proprio lì sopra, circondato da una corona di faggi contorti, segno di venti impetuosi.
Si sale a fatica controvento e tracce di recente neve ghiacciata amplificano la sensazione di essere precipitati in un gelido inverno anticipato. La cima è vasta come una prateria e spazzata da folate polari, ma offre una vista grandiosa: tutto attorno un mare di ondulazioni a perdita d’occhio, col massiccio del Triglav come una fortezza di roccia a dominare la scena, mentre le brevi vallate conservano un verde di pascoli estivi e poche manciate di case e campanili a cipolla.
Tutto ciò va visto e digerito in fretta, visto che siamo entrati nell’era glaciale, e lo stomaco brontola. Impensabile fermarsi qui per mangiare qualcosa; bisogna scendere sottovento e, bardati come alpinisti himalayani, trangugiare controvoglia un panino congelato. Non vedo l’ora di tornare nel bosco protetto dal vento e iniziare la caccia.
Basterà allontanarsi per qualche metro a lato del sentiero per dare avvio a un delirio senza precedenti: i porcini compaiono subito e basta fare pochi passi per trovarne un altro, e poi un altro, e un altro ancora. Grossi, carnosi e profumati, in una breve radura ne trovo addirittura quattro, ciascuno delle dimensioni di una grande padella e con gambi che sembrano tronchi. Dopo aver riempito due borse e lo zaino, non sappiamo più dove metterli e, visto che alcuni sembrano usciti da un congelatore, pesano come incudini. E non abbiamo neanche guardato chiodini, colombine e altre decine di specie che non conosco bene.
Ora il freddo è diventato cattivo anche qui, ma non ci faccio caso. In meno di mezz’ora abbiamo fatto una raccolta prodigiosa, ma mi accorgo di avere ormai le mani congelate. Siamo ormai alla radura di Biancaneve e le amanite se la ridono, perché i porcini spariscono, ma loro sono sempre là!
Ancora una mezz’ora di morbida carrareccia e siamo all’auto, dove la quota più bassa regala un vago tepore. Carichiamo in macchina il nostro bottino e via in pianura passando per Cepovan, attraverso un territorio selvaggio di boschi smisurati e natura sovrana.
A casa, foto ricordo della caccia grossa e poi via di padella, con la casa che profuma di rifugio alpino e tutti attorno alle pentole per assaggiare il sapore del bosco.

lunedì 12 ottobre 2009

11 ottobre 2009 Giro dei tre rifugi in Pusteria




“Di nuovo da sola in montagna”

Non è proprio vero: ho già fatto questo giro senza compagnia. Ma stavolta l’ho progettato, sono partita e tornata, tutto da sola.
Seconda uscita della “nuova era”, ma per non smentirmi, anche stavolta ho cambiato programma “in progress”. L’idea erano i larici gialli e sabato ho viaggiato a lungo per guide; alla fine erano rimasti in ballottaggio lo Sleme dal Passo Vrsic, il Lago Bordaglia e il giro dei Tre Rifugi in Pusteria. Tutte uscite già fatte, tutti luoghi incantevoli, ma la decisione non arrivava.
Bene, mi son detta, lasciamo che arrivi domani: non devo rendere conto a nessuno, sono libera, deciderà il mio desiderio.
La notte piove di bestia ma alle 6, ora di sveglia spontanea, il cielo nero è stellato e i preparativi sono veloci. Alle 6 e mezza sono in autostrada, con una strana euforia. Non ho ancora deciso, se non di scartare lo Sleme: troppo breve il percorso, ho voglia di faticare. Restano le altre due opzioni e decido che a Forni Avoltri saprò cosa fare.
Intanto mi godo una ricca colazione in autogrill e poi tutti i programmi radio della prima mattina, compresi almeno tre radiogiornali con le solite funeste notizie.
Arrivo in montagna senza quasi accorgermene, ma i larici a Rigolato sono ancora belli verdi e al bivio di Pierabech la decisione è già presa.
Sappada e S. Stefano di Cadore sono affogate nella nebbia mattutina ma, quando viro in direzione del Comelico, compaiono le Dolomiti, appena sfarinate da una leggera nevicata, e una pioggia di monete di rame cade dai faggi scossi dal phon. Tutto riluce, dopo le piogge di ieri, ed ora so che era giusto venire qui.
Sono ormai a Moso, già sveglia sotto il tiepido sole del mattino, mentre al park ci sono sei gradi di ombra umida e il pile non basta. Parto veloce per scaldarmi e poco dopo arriva una buona news: il Pian di Cengia è aperto! Brava Cecchi, mi dico: quale occasione migliore per congedarsi dalle Dolomiti nella buona stagione con un pranzo al Pian di Cengia?
Poi, è solo salita su pietre consunte e mughi che stillano umidità, guardando le profonde ferite longitudinali di Cima Una. Quando una nuova frana? Quanto dureranno ancora queste guglie impareggiabili?
I larici sono gialli come volevo, ma all’ombra non si accendono e in Val Sassovecchio soffia un vento gelido. Ma quando arriva il sole? Arriva insieme al Paterno, la piramide che ho salito con tanti patemi solo un paio di mesi fa, e tutto sembra migliore. Poi arriva la Torre Toblin e i due laghi gemelli, e infine la sagoma del Locatelli e le Tre Cime.
Di nuovo qui, in questo scenario senza uguali, coi miei tempi e col mio passo, e la sola compagnia dei miei pensieri. Mi fermo solo pochi minuti, discosta dalla ventina di persone che sono salite fin quassù, perchè il secondo rifugio mi chiama. Attraverso il grigio ghiaione completamente all’ombra del Paterno ed è sempre emozionante, come guardarsi indietro, veder rimpicciolire il Locatelli e alzarsi Cima Tre Scarperi con la vetta imbiancata.
Cambio di prospettive e ora di nuovo salita decisa verso la forcella, di nuovo passi lenti e braccia nude, pochi incontri sorridenti e sagome in controluce di chi è già arrivato al crinale. Faccio fatica, su per questa ripida salita finale; è l’ultima della giornata, ma sono stanca e mi fa male la schiena.
Arrivare è la solita vertigine di un nuovo versante, con il sollievo di tornare nel sole e lo stomaco che brontola di fame.
Il Pian di Cengia si crogiola sotto il sole ed è animato, ma senza la folla estiva. Una radler e un piatto di minestrone sono un pranzo di gala, con la faccia al sole ad occhi chiusi. Ma siamo vicini allo spartiacque: tra l’una e le due c’è la svolta e il clima cambia, giusto in tempo per ripartire.
Da qui al Comici c’è il silenzio diverso del pomeriggio, che ovatta le orecchie con un senso di smarrimento. Una solitudine spaziale che ti ruba qualunque pensiero e i piedi che fanno male. Sono più stanca del solito e la schiena non mi dà pace. Ma scendo senza incertezze, obbedendo al richiamo del fondovalle di queste stagioni, fino a desiderare una casetta di legno sul Monte di Mezzo, ancora inondato di sole, con il fuoco che scoppietta e la mia famiglia ad aspettarmi.
Ancora larici accesi e un cielo che è diventato un mare increspato di onde bianche. L’ultimo tratto è un patimento di pendenza innaturale: è il nuovo sentiero, tracciato artificialmente per aggirare la frana, e le ginocchia gemono.
Finalmente al Fondovalle, ancora lambito dall’ultimo sole, si può lasciar andare le gambe e annusare il piacere del ritorno, lasciarsi un po’ coccolare dall’orgoglio di avercela fatta e di poter tornare sorridendo.


NOTE TECNICHE

Carta: Tabacco n. 1 Cortina e Dolomiti di Sesto
Dislivello in salita: m 865 fino al Rifugio Locatelli, ulteriori m 117 fino al rifugio Pian di Cengia, totale m 982
Dislivello complessivo in discesa: m 982

PARTENZA

Raggiunto il paese di Sesto, in località Moso si prende la deviazione per Val Fiscalina, posta sulla statale al centro del paesino. Si percorre la deviazione asfaltata per circa tre chilometri, fino al parcheggio a pagamento (€ 3 per l’intera giornata), dove termina la strada percorribile con mezzi privati (in alternativa, se non si vuole parcheggiare a pagamento, bisogna lasciare la macchina nei pressi della partenza dell’ovovia per la Croda Rossa e farsela a piedi). Da qui parte il tragitto per il giro dei Tre Rifugi, ben indicato da una tabella che indica i tempi di percorrenza e l’eventuale apertura dei Rifugi (mentre il Fondovalle è aperto tutto l’anno tranne il mese di novembre, gli altri rispettano i consueti periodi di apertura dei rifugi, di norma dal 30 giugno al 30 settembre). Si segue la strada asfaltata, che in breve diventa sterrata sul fondovalle; lungo il percorso ci sono diverse deviazioni ma il risultato è assolutamente lo stesso: in una ventina di minuti, si giunge al Rifugio Fondovalle.

PERCORSO

Dal Rifugio Fondovalle (1.541) in direzione sud – ovest parte un evidente sentiero che porta in quota. Lo si percorre fino ad un bivio evidente: a destra con il segnavia n. 102, si raggiunge il Locatelli, a sinistra il Zsigmondy – Comici. Il giro dei Tre Rifugi può essere percorso in entrambe le direzioni, ma personalmente prediligo quella verso il Locatelli. Prendete quindi a destra e salite senza incertezze né deviazioni lungo la Val Sassovecchio a fianco di un torrentello, che scorre sotto l’imponente mole di Cima Una alla vostra sinistra. Noterete proprio vicino alla cima gli evidenti segni del distacco che, nell’ottobre del 2006, a riversato a valle una frana imponente. Si sale con pendenza costante, finchè la vegetazione si dirada e compaiono prima il Paterno, poi la Torre Toblin. L’ambiente è meraviglioso ed il percorso mai troppo impegnativo. Giunti su un ampio prativo ormai sotto la Torre Toblin, compaiono le Tre Cime di Lavaredo e la sagoma del Rifugio Locatelli (m. 2.405): siete giunti alla prima tappa del giro, avete percorso il dislivello più cospicuo di 865 m. e, se ci avete impiegato 2 ore e mezza, siete in perfetta media inglese. La sosta sarà indimenticabile, ve lo prometto.
Se non ne potete più, girate i tacchi e scendete da dove siete venuti, ma se avete ancora gambe e polmoni, seguite il mio consiglio e prendete il sentiero n. 101, posto a nord – est del rifugio che, percorrendo i ghiaioni delle pendici nord del Monte Paterno, in un’ora scarsa di morbida traversata, vi porterà al Rifugio Pian di Cengia. Dovrete fare un’unica breve salita degna di questo nome per raggiungere Forcella Pian di Cengia ma la fatica è davvero limitata e i panorami imperdibili, specie quando sbucherete dalla sella in corrispondenza di una crocifisso di legno e avrete davanti a voi un altro mondo straordinario, con la Croda dei Toni, i Cadini di Misurina e distese di montagne a perdita d’occhio da levare il fiato. Ancora una decina di minuti e sarete al Pian di Cengia, piccolo e delizioso rifugio a quota 2.522, che vi stupirà con la sua cucina e con una vista impagabile. Quando sarete sazi di cibo e di bellezze, potete riprendere il cammino: da qui è tutta discesa fino a valle. Prendete in direzione del Rifugio Zsigmondy – Comici e, con una comoda e assai panoramica passeggiata, in una mezz’ora sarete a destinazione. Il Rifugio è posto su una panoramica balza rocciosa al cospetto della Croda dei Toni e di parte della Meridiana di Sesto, lungo le cui cenge si snoda la famosa Via degli Alpini. Anche qui l’ambiente è grandioso e quando sarete pronti, non rimane che percorrere gli ultimi 684 metri di dislivello in discesa per tornare al Rifugio di Fondovalle. Non dovreste metterci più di un’ora e all’arrivo, se avete ancora dei desideri, sappiate che il Fondovalle offre deliziosi buchtel (tipici dolci altoatesini di pasta lievitata serviti con crema alla vaniglia), ma anche yoghurt con frutti di bosco e qualsiasi altra tipica ghiottoneria da rifugio.

CONSIDERAZIONI

E’ un’escursione imperdibile. Io l’ho effettuata in tutte le stagioni (d’inverno con le ciaspe solo fino al Locatelli!) e non riesco a decidermi quando sia più bella. In estate è splendida, con il solo neo di un flusso escursionistico imponente, ma percorretela solo con tempo sicuro perché i fulmini hanno una spiccata predilezione per questa zona (per inciso, “Croda dei Toni” vuol dire “Croda dei tuoni”!!!). In autunno con i larici gialli e semideserta regala emozioni non comuni. In una soleggiata giornata invernale, le cime innevate contro il blu del cielo sono quanto di più simile al paradiso si possa immaginare sulla terra (informarsi SEMPRE prima sulle condizioni della neve!). E’ un escursione senza insidie, ma richiede comunque allenamento e attrezzatura adeguata (ci vogliono comunque dalle 5 alle 6 ore per il percorso integrale, anche se il dislivello complessivo non raggiunge i mille metri). Non mi stanco di raccomandare di tenere sempre d’occhio il meteo e di ricordare che, sopra i duemila metri di quota, si può passare dall’estate all’inverno in poche ore, anche se siamo in pieno luglio (sì, ho il terrore dei temporali e del maltempo, ma sua Maestà la Montagna mi ha impartito alcune severe lezioni sull’argomento, che credo non dimenticherò mai più!).







domenica 20 settembre 2009

AUTUNNO SUL VOGEL

PSICOTERAPIA IN QUOTA

Settembre strepitoso, quest’anno. E’ appena iniziato l’autunno, ma se non fosse per il crepuscolo che avanza inesorabilmente mangiandosi le giornate e per l’odore fruttato della campagna, non te ne accorgeresti. Fa caldo, con temperature che sfiorano i trenta gradi in pieno giorno, ma se esci di città senti odore di mosto e le velature alte nel cielo azzurro tolgono ogni speranza: l’estate sta morendo. Voglio andare in montagna, oggi, anche se col cuore pesante.
La scelta cade sul Vogel. Ci sono già stata un paio di volte, ma è vicino e con poca fatica si sale su una cima “vera” che sfiora i duemila metri, selvaggia ma piena di suggestione e con un signor rifugio a offrire conforto ai camminatori.
Mi sveglio senza fatica, pur avendo litigato con le coperte che mia nipote ha tirato per tutta la notte, rigirandosi senza posa. Poco importa: è stato un piccolissimo, divertente fastidio.
L’alba è serena e io sono fiduciosa che il mio umore funesto sarà rischiarato dalla salita. Il bosco è fitto e silenzioso, su per la stretta strada a strapiombo che si arrampica da Tolmino verso Planina Lom. Qui l’autunno è cominciato davvero, con i faggi già arrossati e spazzati dalla bora e una famiglia di amanita muscaria a dare il benvenuto. Attraversiamo la malga e proseguiamo lungo la carrareccia che si avvicina a Planina Razor con un’ora di comoda passeggiata quasi in piano. Per me sarà un’ora di lacrime, ma questa è un’altra storia.
Arrivo in rifugio e mi pare che neanche della montagna mi importi più nulla. Sono atterrita: non posso perdere l’unico vero piacere della mia vita. Cerco di non pensarci e attacchiamo la salita.
Il Vogel sta sopra le nostre teste, un po’ ingrigito dalle nuvole basse che lo minacciano, ma si può iniziare a sudare.
Un passo dopo l’altro, comincia il mantra. Guadagnare quota lentamente, un passo dopo l’altro. Solo respiro e passi lenti. Solo i piedi e le gambe e il respiro. Un passo dopo l’altro. Sete e respiro, un passo dopo l’altro. Il cuore che batte forte e lentamente torna regolare, un passo dopo l’altro.
La terapia funziona: dopo un’ora e mezza di mantra, i pensieri si dissolvono, squagliati come neve al sole. Restano solo minuscole gocce di fatica sulla fronte e sulla schiena.
Niente clamori, oggi, solo erba ingrigita, cieli velati e gocce di sudore, un passo dopo l’altro, ma niente pensieri, grazie a dio.
In cima, nessuna euforia. Solo il sollievo di essere finalmente vuota di pensieri, per poter riuscire a vedere un cielo senza clamore e cime ovattate e spazzate dal vento. Pranzo silenzioso, ciascuno con i propri pensieri, finchè si fa strada un’idea: percorrere un anello passando per il Globoki e poi ridiscendere alla Planina Razor con un nuovo percorso.
Lungo la cresta affilata c’è solo bora rabbiosa e un ripido versante che si spegne nei faggi. Poi la traccia si perde fra le rocce acuminate di cresta e bisogna raccogliere le idee per inventarsi il percorso, scendere verso nord per qualche decina di metri per poi risalire al passo e tornare sul versante originario. Solo un piccolo esercizio di orientamento, nulla di più, ma anche questo cancella gli ultimi pensieri sopravvissuti.
In una solitudine assoluta, incontriamo cippi divelti di antichi confini e qualche altro manufatto. Poi, solo discesa a rotta di collo verso valle, con qualche breve ghiaione da percorrere di corsa per dare gas alle gambe.
Di nuovo sete e sudore e fame e voglia di una birra.
Si torna in rifugio con bisogni semplici e forti e il cuore più leggero. La jota è bollente e la birra fresca. Le gambe sono un po’ imballate e fanno male i piedi. Vien voglia di andare per funghi e di fare qualche foto.
Si torna a vivere.







NOTE TECNICHE



Carta: Planinska Zveza Slovenje “Julijske Alpe” 1:50.000.

Dislivello: m 998 complessivi. Da Tolminske Ravne (m 924) a Planina Razor (m 1315) metri 391, e da Planina Razor al Vogel (1922) metri 607.



DESCRIZIONE



Partenza: raggiunta la cittadina di Tolmino in territorio sloveno, si prosegue raggiungendo la frazione di Ljubinj, da cui parte una stretta e tortuosa rotabile affacciata su ripidi pendii (attenzione!), che si percorre integralmente fino ad un evidente parcheggio in prossimità di Planina Lom. Qui si può lasciare il veicolo per proseguire a piedi.



PERCORSO



Si prosegue verso la Planina per una evidente carrareccia in un ambiente alpino di pascoli aperti. Si prosegue senza possibilità di errore lungo l’ampio percorso che serve il Rifugio Planina Razor quasi integralmente nel bosco con pendenze modeste. In poco meno di un’ora si giunge alla Planina Razor.

Proprio dietro il parte il facile sentiero segnalato per il Vogel, su terreno aperto di prati, mughi e rocce che sale dolcemente in direzione nord est. Giunti ad un evidente sella tra la cima del monte ed il Globoki, con il panorama che si apre ora anche in direzione nord – est, si punta a sinistra per la facile cresta del Vogel, di cui si raggiunge in pochi minuti la bella cima, aperta in ogni direzione (ore 1.45 dal rifugio). Si può rientrare con lo stesso percorso dell’andata, oppure proseguire in direzione ovest lungo le suggestive e affilate creste fino ad una cima rocciosa e invalicabile, oltre la quale si trova un passo che conduce con evidente sentiero per il versante sud a Planina Razor. Per uscire dall’impasse, occorre scendere in direzione nord per qualche decina di metri fino all’evidente sentiero che sale da Bohjinj verso il Vogel e che rimane sul versante nord. Guadagnato il sentiero, lo si percorre sempre in direzione ovest vino ad una selletta con un bivio, dove si risale verso l’evidente forcella, affacciata verso sud. Da qui il percorso è intuitivo, in quanto il rifugio è in vista ai nostri piedi e non rimane che percorrere l’evidente sentiero.



CONSIDERAZIONI



Il Vogel mi piace assai: il tragitto in auto è breve e piacevole, senza autostrade trafficate, il percorso non troppo faticoso per arrivare a una quota rispettabile di 1922 metri. Ampi panorami fino al Canin e al Triglav, in stagione fioriture da manuale, rifugio accogliente, jota da favola e struklj da pasticceria: cosa chiedere di più a una montagna?

Sono in molti a pensarla come me, perché lo troverete sempre assai frequentato, ma giuro che è la sua unica pecca!



lunedì 31 agosto 2009

30 agosto 2009 “Colazione al Sabotino”


“Primi segni di fine estate”

Dopo le Dolomiti e il primo vero acquazzone d’agosto, nasce una mattina fresca e spazzata dalla bora. Alle sei mi rigiro nel letto, incerta se godermi un’oretta supplementare tra le lenzuola o fare ciò che mi riesce meglio, ossia alzare il sedere e mettermi in cammino.
Raccolgo qualcosa da mangiare e lascio strada a un’idea: fare colazione sul Sabotino, domenica mattina presto. Non così presto come avrei voluto, ma abbastanza presto da non incontrare anima viva lungo il breve tragitto fino a S. Mauro.
Il vento soffia impetuoso e la luce è ancora livida, a quest’ora; nulla che meriti una foto, accecata dai raggi obliqui e dalle raffiche che piegano gli alberi. Ma prima di arrivare all’attacco del sentiero, ho già fatto un’abbondante colazione a base di fichi, susine mature e noci ancora fresche di mallo.
Lungo il percorso appassiscono i fiori dell’aglio selvatico e, protetta dal monte di casa, posso finalmente cominciare a sudare. Il Sabotino sta sempre lì, accucciato come un grosso gatto che guarda la pianura, coi diffidenti occhi socchiusi. La vegetazione è esplosa, dopo questa lungo agosto tropicale, e, anche se ieri è piovuto, le scarpate assolate non lo danno a vedere.
Silenzio rotto solo dalle campane della prima messa domenicale e dalle raffiche che strapazzano i carpini; nessuno su per questo sentiero sassoso, dove spuntano fiori secchi di un azzurro arrogante. Le gambe sono un po’ legate, stamattina, e non mi hanno perdonato gli strapazzi dell’ultimo fine settimana: motivo in più per guardarmi attorno con lentezza, verso questo orizzonte che credo di conoscere come le mie tasche.
Ma anche stavolta è diverso: diverso il colore dell’Isonzo, né verde né blu, forse violetto; strana la luce, fredda e impaziente, sfiora le superfici e scorre via, indecifrabile come questo vento senza stagione, una bora rabbiosa che non sa dove andare.
Sono ormai a S. Valentino, dove trovo finalmente qualcuno, un uomo piantato a gambe larghe a guardare la pianura. Ci salutiamo appena: c’è qualcosa nel suo sguardo che riconosco e so che nessuno dei due ha voglia di chiacchiere. Trovo un angolino meno battuto dal vento e posso finalmente fare colazione quassù, come volevo: una banana, una manciata di biscotti, star qui in silenzio, cercare per l’ennesima volta casa mia senza trovarla, sentire il sudore che si asciuga, il respiro che torna lento e un po’ di tepore sulle spalle.
Oggi non guardo le montagne, guardo giù in pianura, guardo queste due città che ormai si confondono, percepisco il torpore della prima mattina di un giorno di festa, quasi tutti ancora a letto per il meritato riposo. Sono distante abbastanza da non sentire quasi i rumori di quel mondo, dove vivo la mia vita tenacemente attaccata a terra e da cui fuggo appena posso per illudermi di non farne parte.
Ho dimenticato a casa la bottiglia d’acqua e ho sete, ho voglia di tornare per invitare a pranzo i ragazzi; voglio vedere mia nipote, dopo una settimana di vacanza da sola, e sperare in un sorriso di mio figlio. Incontro solo una coppia di anziani sorridenti e un papà con la sua bambina addormentata nello zainetto.
Scendo lentamente, raccogliendo fiori azzurri e qualche ramo di ginestra. Raccolgo noci, fichi e susine per il dessert del nostro pranzo domenicale, tutti assieme. Raccolgo la luce strana e il vento selvaggio e la solitudine. Torno a casa che la città ha appena iniziato a svegliarsi.
Torno a casa con le braccia piene e il cuore più leggero.

domenica 16 agosto 2009

FERRAGOSTO SULLO JALOVEC


Se fosse un numero sarebbe l’uno, dritto e svettante verso l’alto, campione tra i monti sloveni per dislivello e difficoltà. Se fosse un colore sarebbe il bianco abbagliante di una guglia di ghiaccio, o di un diamante dal taglio ardito che punta verso il cielo. Se fosse un uomo sarebbe l’amante che tutte le donne sognano: bello, sfacciato e un po’ pericoloso.
Lo Jalovec è il simbolo del Planinska Zveza sloveno ed è un sogno che ho accarezzato per anni. Non mi sentivo pronta, volevo che fosse speciale e aspettavo con pazienza il momento giusto; in realtà lo temevo e questo mi faceva rinviare l’occasione. Ma dopo tante esperienze, spesso dure e difficili, dopo essermi costruita una spessa scorza di umiltà, il momento giusto è arrivato.
Si avvicina un Ferragosto rovente, abbiamo un giorno e mezzo libero e un energico anticiclone scaccia l’ansia da temporale: alle due del pomeriggio si parte, per la seconda volta in una settimana, verso la valle dell’Isonzo. Arriviamo alle Izvir Soce insieme a frotte di pigri turisti accaldati, per poi percorrere il breve sterrato che si addentra nella valle fino alla fattoria Flori, dove le poche auto presenti testimoniano che perfino gli sloveni hanno qualche riserva a farsi un mazzo simile il giorno di Ferragosto.
Lo Jalovec è invisibile, da qui, ma il cartello c’informa che sono necessarie 6 lunghe ore per arrivare in cima; noi potremo limitarci a tre per raggiungere il rifugio Zavetisce Pod Spickom e passarvi la notte.
La salita va su subito decisa, come per avvisare che non siamo qui a pettinare le bambole: lunghi tornanti si arrampicano per un pendio che definire ripido è un eufemismo. La Cecchi ha appena mangiato un panino che accentua l’effetto gravitazionale dell’incudine sulle spalle e fastidiosi esiti digestivi. La sudorazione è copiosa dentro l’umido bosco, anche se è pomeriggio inoltrato, e dobbiamo fermarci a bere a ripetizione.
La salita continua sostenuta ma la presenza di conifere sempre più rade annuncia la fine del bosco. Arrancando sull’aspro sentiero tra splendide fioriture si può cominciare a far correre lo sguardo sulle cime finalmente visibili: Prisojnik, Razor e Triglav splendono alla luce del tramonto e compare anche la Spickom, alle cui pendici sorge il rifugio.
Lo vedo, finalmente, e l’ultimo tratto è, se possibile, ancor più ripido.
E’ ormai sera quando, sudati fradici, arriviamo al breve terrazzo affacciato su un panorama stratosferico. Maria e Nadia ci aspettano sorridenti con la cena in caldo e birre fresche per spegnere la sete dell’arrivo. E’ piccolo ma straordinariamente accogliente, questo gioiellino di spartana ospitalità slovena, e lo testeremo con una deliziosa minestra d’orzo, servita con sorrisi e premure inusuali nel tepore della minuscola sala da pranzo.
Siamo una ventina a dividerci questa casetta a duemila metri, che aspetta la notte nel silenzio siderale della vigilia di Ferragosto. Anche la camerata è accogliente e ben disposta e, quando si accendono le stelle, ci rannicchiamo tutti nei nostri lettini in attesa delle serenate notturne. Stretta tra gli occasionali compagni di rifugio, passerò la notte con un sottofondo stereofonico di seghe in azione, ma con la magia di uscita notturna sotto le stelle che sembrano caderti addosso e una falce di luna a riflettersi sulle rocce candide.
L’alba mi trova pimpante, nonostante la nottata quasi insonne, e il sorgere del sole dietro il Razor è l’ennesimo spettacolo offerto dal rifugio. Le due efficienti e premurose signore ci sfamano a dovere e chiacchieriamo allegre in uno strano linguaggio colorito, col quale ci intendiamo alla perfezione. Alle 6 e mezza siamo pronti a partire ed a scoprire cosa si cela davvero in quell’aspra parete di roccia che punta verso il cielo. Dopo un ghiaione disseminato di grossi massi con scritte misteriose, iniziano le prime attrezzature; ho seguito il consiglio della Dottoressa delle cime e sono senza imbrago ma confesso che ho qualche perplessità. Il Bosi, invece, indossa ogni genere di presidio di sicurezza in suo possesso e, appesantito dai ferri e dalle corde, inizia a sbuffare come una betoniera.
Ci accodiamo ad una coppia di sloveni in età, tanto per prendercela comoda, e il percorso va su teso come il filo d’acciaio che a tratti lo accompagna.
Stiamo salendo l’Ozbenik, un signore dal carattere aspro e spigoloso, chiaramente invidioso del suo più celebre vicino, che ce la mette tutta per tagliare le gambe a quanti lo attraversano senza degnarlo di attenzione e con il pensiero rivolto alla meta. E lui si vendica, con un primo grado ostile e accidentato, che rende un po’ nervosi.
Per fortuna che i nostri battistrada, entrambi ultrasessantenni, sono calmi e contemplativi e, senza quasi faticare, arriviamo alla sella di Bretto per l’ultimo aereo tratto di percorso.
Quello che ci aspetta da qui in avanti è ancora una breve salita e il tratto finale di cresta, uno sperone acuminato e vertiginosamente sospeso su due valli.
Un breve passaggio è così affilato da rendere difficile mettere due piedi uno accanto all’altro: lo attraverso carponi come un ragno perché l’esposizione è insopportabile, ma con qualche punta di euforia per essere ormai arrivati.
La bellezza della cima ha pochi rivali: il panorama spazia dal Grossglockner al mare, passando in rassegna l’intero panorama delle Giulie. I gracchi volteggiano nel blu e anche noi giriamo attorno alla vetta per cogliere tutte le prospettive che si aprono da quassù. Rimarrei in cima per ore a rendere il doveroso omaggio questo impareggiabile sperone di roccia, ma il tempo è tiranno: i nostri impegni e i 1700 metri da scendere ci impongono di ripartire.
Sappiamo che la discesa non ha un solo tratto comodo e rilassato e che le difficoltà non sono archiviate. Il Bosi prende alla lettera la riflessione e scende come se camminasse sulle uova.
Mentre lo Jalovec scompare nelle nubi, siamo di nuovo alla sella di Bretto e continuiamo a ragionare su quale sia il tratto più impegnativo; effettivamente, da qui in giù, ci vuole tutta la concentrazione che ci resta per non fare passi falsi.
Di nuovo in vista del rifugio, ci si può rilassare un attimo e pregustare il piacere dell’ultima sosta. Nadia e Maria sono affaccendate ai fornelli e mi servono la jota tanto decantata: è un’autentica prelibatezza, o forse sono la fame, la fatica e il sollievo di avercela fatta a farmela gustare così tanto! Il Bosi invece rifiuta il cibo, tracanna un litro d’acqua e si stende sulla panca senza dare più segni di vita.
Stiamo per congedarci dal regno dello Jalovec e percorrere gli ultimi mille metri che ci separano dalla Val Trenta. Aspro sentiero sassoso prima di salutare le cime e poi ancora ripido bosco di faggi, con le punte dei piedi ormai maciullate da migliaia di passi malagevoli.

Millesettecento metri da salire e da scendere senza mai una distrazione, sudore abbondante e fatiche smisurate solo per potersi sedere scomodamente su un tetto di rocce che precipitano nel vuoto. Perché lo facciamo? Perché ci spacchiamo la schiena e le ginocchia, perché tremiamo su creste affilate o giù per impervie pareti, dove ogni passo potrebbe essere l’ultimo?

Citando Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare!”.
O forse ci illudiamo di fare un piccolissimo passo verso l’alto.

NOTE TECNICHE

Carta: Tabacco foglio 019

Dislivello: m 1700, di cui circa 600 di percorso a tratti attrezzato.

Difficoltà: EEA – percorso di notevole impegno fisico e tecnico, da affrontare con allenamento e attrezzature adeguati e tempo sicuro.

PARTENZA

Raggiunta l’alta Val Trenta in territorio sloveno, si seguono le indicazione per le sorgenti dell’Isonzo (Izvir Soce), si supera l’omonimo rifugio e si prosegue per strada sterrata fino al divieto di proseguire in località Fattoria Flori (indicazioni).

ESCURSIONE

Il sentiero parte direttamente dal parcheggio (m 960) e sale con tornanti lungo la ripida faggeta. Prosegue poi sempre nel bosco con discreta pendenza fino ad un bivio a destra, che è una variante del percorso e porta a ricongiungersi con il sentiero proveniente dal passo Vrsic. Io consiglio di proseguire diritti: anche se in percorso è un po’ più ripido, è più lineare e si guadagna quasi una mezz’ora. In uscita dal bosco di incrocia il sentiero che a sinistra porta al Bavski Grintavec. Si prosegue sempre dritti tra mughi e poi su terreno finalmente aperto con vista sulla parete sud del gruppo dello Jalovec. Il sentiero prosegue sempre ben marcato e pendenza rispettabile finchè si giunge in vista della Spickom, la guglia di roccia ai cui piedi è posto il rifugio. L’ultimo tratto del percorso attraversa prati fioriti e conduce infine al rifugio (m 2.064).
Da qui si seguono le indicazioni per lo Jalovec che conducono per ghiaie ad una balza rocciosa con le prime attrezzature. Si continua a salire per gradinate e cenge spesso attrezzate la parete dell’Ozbenik. Si giunge così alla sella di Bretto, e si riprende poi la salita verso sinistra per roccette parzialmente attrezzate fino alla spalla della cresta sud dello Jalovec. Lungo l’affilato crinale assai meno ripido si sale fino alla cima a quota m2.643.

CONSIDERAZIONI

Che dire, è un’escursione per “veri uomini”! 1700 metri complessivi sia in salita che in discesa, seicento metri di parete rocciosa parzialmente attrezzata e passaggi aerei: qui si coglie il senso dell’espressione “passo sicuro” e “esperienza di montagna”. Ci vuole fisico, ma soprattutto testa per rimanere sempre concentrati e scansare i rischi obiettivi di questa escursione.
Imbrago si o imbrago no? Io dico si, perché non si sa mai: un sasso, una distrazione o un imprevisto possono essere fatali e, anche se i tratti attrezzati sono pochi, si ha una tutela in più. Si al casco, senza controindicazioni.
E poi, ascoltatemi, spezzate l’escursione con pernottamento al rifugio, a meno che non abbiate fatto qualcosa di molto brutto e vogliate punirvi o abbiate ansia da prestazione.
Dormire allo Zavetisce Pod Spickom è più di un espediente per spezzare l’uscita: € 20 (estate 2009) per i soci CAI sono il prezzo di un pernottamento con colazione e di una cena semplice, e consentono la piacevole esperienza della sana ospitalità slovena, per quanto spartana. Cercate di entrare in confidenza con le due adorabili signore di mezza età che lo gestiscono in maniera impeccabile e servono minestre appetitose e strudel deliziosi. Il balcone del rifugio offre una vista impagabile e, se avete la fortuna del bel tempo, la notte in quota con il cielo stellato è un piacere che si somma a tutti gli altri. Il rifugio, alimentato con pannelli solari, ha l’unica pecca della mancanza di acqua corrente.
Se spezzate la salita, vi godrete alla grande anche la fatica, che non manca neanche così. La cima è una delle più belle che ho salito e, se non soffrite di vertigini, l’adrenalina non mancherà, come pure l’occasione di ammirare praticamente tutte le cime delle Giulie. Preparatevi a faticare dal primo all’ultimo passo, anche in discesa, ma farete un’esperienza che non dimenticherete facilmente.

domenica 4 gennaio 2009

ATTORNO A KRANJSKA GORA


SORPRESE DI CAPODANNO

Capodanno trascorso camminando, anche quest’anno. Mi sono accontentata, si fa per dire, dell’amico Sabotino ma in realtà non è mai un ripiego, ma l’occasione per godere una volta di più di un piccolo paradiso dietro l’angolo.
La nevicata della notte di S. Silvestro ha lasciato larghe chiazze candide in quota e il bel tempo del primo pomeriggio mi ha spinto a calpestare la prima neve dell’anno sul monte di casa.
Poi l’anticiclone si stabilizza e decidiamo di posticipare la prima camminata “vera” al sabato successivo.
Mi stuzzica l’idea del Monte Lussari, per poi scendere con gli sci per la Di Prampero e tutto ha lo stimolo del nuovo. Partenza comoda alle 8 in un universo gelido e terso. Da Courmayer alle Alpi Giulie non c’è una nuvola e, anche se l’Arpa prevede nubi sul tarvisiano, confidiamo nella potenza dell’anticiclone del solstizio d’inverno.
Il viaggio va via liscio, ma a Carnia avvistiamo l’annunciata nuvolaglia. Man mano che si avviciniamo a Tarvisio, la coltre appare sempre più compatta e staziona minacciosa proprio sulla nostra meta.
Un mediocre caffè a Bagni di Lusnizza scatena un’intensa filippica contro l’incompetenza ricettiva carnica, che sarà pure un dato oggettivo ma, sotto sotto, nasconde la cocente frustrazione per le condizioni meteo.
Alla partenza della telecabina cade perfino qualche fiocco di neve e, mentre osserviamo il cupo cappello grigio che incappuccia il Lussari, conveniamo che farci il mazzo per tre ore in mezzo alle nubi non fa per noi.
Delusi e incupiti, diamo un’occhiata alla partenza del sentiero e poi puntiamo decisi verso la vicina, amata repubblica slovena, confidando in cieli più benevoli.
Sono ormai le 10 e mezza e le mete alternative sono troppo distanti o ancora ostinatamente chiuse nelle nuvole, quando, diretti verso il Passo Vrsic, il Bosi propone di raggiungere la Koca v Krnici. Incredibilmente, la Cecchi accetta senza discutere e addirittura con un certo entusiasmo; bardati come alpinisti himalayani (il termometro segna -11!), iniziamo la nostra escursione inattesa e veniamo subito informati che il rifugio è aperto, notizia che incrementa il buonumore.
La passeggiata sarà quasi un’ora e mezza di meraviglie innevate, nel silenzio del bosco che costeggia la Pisnica, il torrente guadato dopo essere sfuggiti alla furia temporalesca dello Spik qualche anno fa.
Oggi invece è tutto un ricamo di ghiacci sui rami spogli, che poi scendono a formare lunghe stalattiti fino a toccare il pelo dell’acqua.
La neve è tanta, morbida e farinosa. La neve copre e svela, nasconde il suolo, ma disegna la forma di un arbusto, tinge di bianco un ramo abbattuto a spezzare la verticalità del bosco, gonfia un sasso e lo trasforma in una meringa luccicante.
Il tempo si ferma, persi nella scoperta di continue sorprese, come un minuscolo chalet di legno adornato di trofei di caccia, le mutevoli forme del ghiaccio, o un improvviso pianoro ammorbidito da un largo piumino imbottito.
Poi ci sono gli incontri con i numerosi escursionisti, bimbi dalle guance arrossate, cani impazziti di gioia con il muso e le orecchie spruzzate di neve, giovani, adulti ed anziani: la solita piccola folla di escursionisti sloveni che sfidano qualunque temperatura, pur di camminare.
Eccoci arrivati, infine, al piccolo rifugio, addossato ai 1700 metri di parete della Skarlatica, la Signora delle Giulie che si accende di rosso ai raggi del sole, che ha ripreso a splendere gagliardo. E’ imponente e bellissima, una vera “woman in red”, algida e sdegnosa; sa che per conquistarla bisogna avere due palle così, ma lei se ne sta lì, indifferente alle occhiate concupiscenti dei suoi ammiratori, non ammicca e non seduce, aspetta distaccata che pochi, eroici escursionisti superino un muro di quasi due chilometri per calpestarne per un attimo la cima e poi ridiscendere di corsa per arrivare a valle esausti, prima del buio.
Il rifugio è caldo, accogliente e gremito, jota e salsicce bollenti placano la fame e la solita birra gelata da sollievo alle labbra riarse. Usciamo dopo un’oretta per un’escursione termica di una trentina di gradi, che ha il potere di arroventarci la faccia e le orecchie, mentre la “Signora in rosso” si è tinta di zafferano.
Gli escursionisti che salgono in rifugio sono sempre più numerosi, i più si tirano dietro lo slittino per un ritorno agile e divertente.
Rientriamo in città con il buio, che chiude il sipario sulla prima, gelida camminata del 2009, un’altra festa di emozioni e sorprese.

NOTE TECNICHE

Carta: Planinska Zveza Slovenje “Julijske Alpe” 1:50.000
Dislivello in salita: m 303 da Kranjska Gora
Difficoltà: E – molto facile

PARTENZA

Da Kranjska Gora, graziosa località turistica posta ai confini nord – occidentali della Repubblica slovena, ad una manciata di chilometri da Tarvisio e da Villacco, ci si dirige verso il Passo Vrsic. In corrispondenza del ponte sul torrente Pisnica, si può parcheggiare. Il sentiero per la Koca v Krnici a quota 1113 parte proprio prima del ponte, sul lato sinistro della strada in direzione Vrsic.

ESCURSIONE

E’ una breve passeggiata di un’ora in estate e poco più in inverno, che raggiunge, costeggiando a lungo il torrente, il grazioso rifugio di legno, addossato all’imponente parete nord della Skarlatica. Da qui si dipartono numerosi itinerari, tutti lunghi ed impegnativi. La sola camminata verso il rifugio è veramente breve e adatta a tutti. Non presenta attrattive clamorose ma consente in tutte le stagioni una piacevole attraversata in un folto bosco, per giungere alla visuale imponente della Skarlatica e delle altre vette della zona e, magari, una piacevole sosta mangereccia. L’inverno le regala una magia unica che, personalmente, preferisco. Tenuto conto che la passeggiata impegna in tutto poco più di un paio d’ore, non andateci apposta perché starete in auto quasi quattro ore tra andata e ritorno, ma, se soggiornate o transitate per Kranjska Gora o il tarvisiano, può essere un piacevole diversivo.