lunedì 31 agosto 2009

30 agosto 2009 “Colazione al Sabotino”


“Primi segni di fine estate”

Dopo le Dolomiti e il primo vero acquazzone d’agosto, nasce una mattina fresca e spazzata dalla bora. Alle sei mi rigiro nel letto, incerta se godermi un’oretta supplementare tra le lenzuola o fare ciò che mi riesce meglio, ossia alzare il sedere e mettermi in cammino.
Raccolgo qualcosa da mangiare e lascio strada a un’idea: fare colazione sul Sabotino, domenica mattina presto. Non così presto come avrei voluto, ma abbastanza presto da non incontrare anima viva lungo il breve tragitto fino a S. Mauro.
Il vento soffia impetuoso e la luce è ancora livida, a quest’ora; nulla che meriti una foto, accecata dai raggi obliqui e dalle raffiche che piegano gli alberi. Ma prima di arrivare all’attacco del sentiero, ho già fatto un’abbondante colazione a base di fichi, susine mature e noci ancora fresche di mallo.
Lungo il percorso appassiscono i fiori dell’aglio selvatico e, protetta dal monte di casa, posso finalmente cominciare a sudare. Il Sabotino sta sempre lì, accucciato come un grosso gatto che guarda la pianura, coi diffidenti occhi socchiusi. La vegetazione è esplosa, dopo questa lungo agosto tropicale, e, anche se ieri è piovuto, le scarpate assolate non lo danno a vedere.
Silenzio rotto solo dalle campane della prima messa domenicale e dalle raffiche che strapazzano i carpini; nessuno su per questo sentiero sassoso, dove spuntano fiori secchi di un azzurro arrogante. Le gambe sono un po’ legate, stamattina, e non mi hanno perdonato gli strapazzi dell’ultimo fine settimana: motivo in più per guardarmi attorno con lentezza, verso questo orizzonte che credo di conoscere come le mie tasche.
Ma anche stavolta è diverso: diverso il colore dell’Isonzo, né verde né blu, forse violetto; strana la luce, fredda e impaziente, sfiora le superfici e scorre via, indecifrabile come questo vento senza stagione, una bora rabbiosa che non sa dove andare.
Sono ormai a S. Valentino, dove trovo finalmente qualcuno, un uomo piantato a gambe larghe a guardare la pianura. Ci salutiamo appena: c’è qualcosa nel suo sguardo che riconosco e so che nessuno dei due ha voglia di chiacchiere. Trovo un angolino meno battuto dal vento e posso finalmente fare colazione quassù, come volevo: una banana, una manciata di biscotti, star qui in silenzio, cercare per l’ennesima volta casa mia senza trovarla, sentire il sudore che si asciuga, il respiro che torna lento e un po’ di tepore sulle spalle.
Oggi non guardo le montagne, guardo giù in pianura, guardo queste due città che ormai si confondono, percepisco il torpore della prima mattina di un giorno di festa, quasi tutti ancora a letto per il meritato riposo. Sono distante abbastanza da non sentire quasi i rumori di quel mondo, dove vivo la mia vita tenacemente attaccata a terra e da cui fuggo appena posso per illudermi di non farne parte.
Ho dimenticato a casa la bottiglia d’acqua e ho sete, ho voglia di tornare per invitare a pranzo i ragazzi; voglio vedere mia nipote, dopo una settimana di vacanza da sola, e sperare in un sorriso di mio figlio. Incontro solo una coppia di anziani sorridenti e un papà con la sua bambina addormentata nello zainetto.
Scendo lentamente, raccogliendo fiori azzurri e qualche ramo di ginestra. Raccolgo noci, fichi e susine per il dessert del nostro pranzo domenicale, tutti assieme. Raccolgo la luce strana e il vento selvaggio e la solitudine. Torno a casa che la città ha appena iniziato a svegliarsi.
Torno a casa con le braccia piene e il cuore più leggero.

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