Se fosse un numero sarebbe l’uno, dritto e svettante verso l’alto, campione tra i monti sloveni per dislivello e difficoltà. Se fosse un colore sarebbe il bianco abbagliante di una guglia di ghiaccio, o di un diamante dal taglio ardito che punta verso il cielo. Se fosse un uomo sarebbe l’amante che tutte le donne sognano: bello, sfacciato e un po’ pericoloso.
Lo Jalovec è il simbolo del Planinska Zveza sloveno ed è un sogno che ho accarezzato per anni. Non mi sentivo pronta, volevo che fosse speciale e aspettavo con pazienza il momento giusto; in realtà lo temevo e questo mi faceva rinviare l’occasione. Ma dopo tante esperienze, spesso dure e difficili, dopo essermi costruita una spessa scorza di umiltà, il momento giusto è arrivato.
Si avvicina un Ferragosto rovente, abbiamo un giorno e mezzo libero e un energico anticiclone scaccia l’ansia da temporale: alle due del pomeriggio si parte, per la seconda volta in una settimana, verso la valle dell’Isonzo. Arriviamo alle Izvir Soce insieme a frotte di pigri turisti accaldati, per poi percorrere il breve sterrato che si addentra nella valle fino alla fattoria Flori, dove le poche auto presenti testimoniano che perfino gli sloveni hanno qualche riserva a farsi un mazzo simile il giorno di Ferragosto.
Lo Jalovec è invisibile, da qui, ma il cartello c’informa che sono necessarie 6 lunghe ore per arrivare in cima; noi potremo limitarci a tre per raggiungere il rifugio Zavetisce Pod Spickom e passarvi la notte.
La salita va su subito decisa, come per avvisare che non siamo qui a pettinare le bambole: lunghi tornanti si arrampicano per un pendio che definire ripido è un eufemismo. La Cecchi ha appena mangiato un panino che accentua l’effetto gravitazionale dell’incudine sulle spalle e fastidiosi esiti digestivi. La sudorazione è copiosa dentro l’umido bosco, anche se è pomeriggio inoltrato, e dobbiamo fermarci a bere a ripetizione.
La salita continua sostenuta ma la presenza di conifere sempre più rade annuncia la fine del bosco. Arrancando sull’aspro sentiero tra splendide fioriture si può cominciare a far correre lo sguardo sulle cime finalmente visibili: Prisojnik, Razor e Triglav splendono alla luce del tramonto e compare anche la Spickom, alle cui pendici sorge il rifugio.
Lo vedo, finalmente, e l’ultimo tratto è, se possibile, ancor più ripido.
E’ ormai sera quando, sudati fradici, arriviamo al breve terrazzo affacciato su un panorama stratosferico. Maria e Nadia ci aspettano sorridenti con la cena in caldo e birre fresche per spegnere la sete dell’arrivo. E’ piccolo ma straordinariamente accogliente, questo gioiellino di spartana ospitalità slovena, e lo testeremo con una deliziosa minestra d’orzo, servita con sorrisi e premure inusuali nel tepore della minuscola sala da pranzo.
Siamo una ventina a dividerci questa casetta a duemila metri, che aspetta la notte nel silenzio siderale della vigilia di Ferragosto. Anche la camerata è accogliente e ben disposta e, quando si accendono le stelle, ci rannicchiamo tutti nei nostri lettini in attesa delle serenate notturne. Stretta tra gli occasionali compagni di rifugio, passerò la notte con un sottofondo stereofonico di seghe in azione, ma con la magia di uscita notturna sotto le stelle che sembrano caderti addosso e una falce di luna a riflettersi sulle rocce candide.
L’alba mi trova pimpante, nonostante la nottata quasi insonne, e il sorgere del sole dietro il Razor è l’ennesimo spettacolo offerto dal rifugio. Le due efficienti e premurose signore ci sfamano a dovere e chiacchieriamo allegre in uno strano linguaggio colorito, col quale ci intendiamo alla perfezione. Alle 6 e mezza siamo pronti a partire ed a scoprire cosa si cela davvero in quell’aspra parete di roccia che punta verso il cielo. Dopo un ghiaione disseminato di grossi massi con scritte misteriose, iniziano le prime attrezzature; ho seguito il consiglio della Dottoressa delle cime e sono senza imbrago ma confesso che ho qualche perplessità. Il Bosi, invece, indossa ogni genere di presidio di sicurezza in suo possesso e, appesantito dai ferri e dalle corde, inizia a sbuffare come una betoniera.
Ci accodiamo ad una coppia di sloveni in età, tanto per prendercela comoda, e il percorso va su teso come il filo d’acciaio che a tratti lo accompagna.
Stiamo salendo l’Ozbenik, un signore dal carattere aspro e spigoloso, chiaramente invidioso del suo più celebre vicino, che ce la mette tutta per tagliare le gambe a quanti lo attraversano senza degnarlo di attenzione e con il pensiero rivolto alla meta. E lui si vendica, con un primo grado ostile e accidentato, che rende un po’ nervosi.
Per fortuna che i nostri battistrada, entrambi ultrasessantenni, sono calmi e contemplativi e, senza quasi faticare, arriviamo alla sella di Bretto per l’ultimo aereo tratto di percorso.
Quello che ci aspetta da qui in avanti è ancora una breve salita e il tratto finale di cresta, uno sperone acuminato e vertiginosamente sospeso su due valli.
Un breve passaggio è così affilato da rendere difficile mettere due piedi uno accanto all’altro: lo attraverso carponi come un ragno perché l’esposizione è insopportabile, ma con qualche punta di euforia per essere ormai arrivati.
La bellezza della cima ha pochi rivali: il panorama spazia dal Grossglockner al mare, passando in rassegna l’intero panorama delle Giulie. I gracchi volteggiano nel blu e anche noi giriamo attorno alla vetta per cogliere tutte le prospettive che si aprono da quassù. Rimarrei in cima per ore a rendere il doveroso omaggio questo impareggiabile sperone di roccia, ma il tempo è tiranno: i nostri impegni e i 1700 metri da scendere ci impongono di ripartire.
Sappiamo che la discesa non ha un solo tratto comodo e rilassato e che le difficoltà non sono archiviate. Il Bosi prende alla lettera la riflessione e scende come se camminasse sulle uova.
Mentre lo Jalovec scompare nelle nubi, siamo di nuovo alla sella di Bretto e continuiamo a ragionare su quale sia il tratto più impegnativo; effettivamente, da qui in giù, ci vuole tutta la concentrazione che ci resta per non fare passi falsi.
Di nuovo in vista del rifugio, ci si può rilassare un attimo e pregustare il piacere dell’ultima sosta. Nadia e Maria sono affaccendate ai fornelli e mi servono la jota tanto decantata: è un’autentica prelibatezza, o forse sono la fame, la fatica e il sollievo di avercela fatta a farmela gustare così tanto! Il Bosi invece rifiuta il cibo, tracanna un litro d’acqua e si stende sulla panca senza dare più segni di vita.
Stiamo per congedarci dal regno dello Jalovec e percorrere gli ultimi mille metri che ci separano dalla Val Trenta. Aspro sentiero sassoso prima di salutare le cime e poi ancora ripido bosco di faggi, con le punte dei piedi ormai maciullate da migliaia di passi malagevoli.
Millesettecento metri da salire e da scendere senza mai una distrazione, sudore abbondante e fatiche smisurate solo per potersi sedere scomodamente su un tetto di rocce che precipitano nel vuoto. Perché lo facciamo? Perché ci spacchiamo la schiena e le ginocchia, perché tremiamo su creste affilate o giù per impervie pareti, dove ogni passo potrebbe essere l’ultimo?
Citando Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare!”.
O forse ci illudiamo di fare un piccolissimo passo verso l’alto.
NOTE TECNICHE
Carta: Tabacco foglio 019
Dislivello: m 1700, di cui circa 600 di percorso a tratti attrezzato.
Difficoltà: EEA – percorso di notevole impegno fisico e tecnico, da affrontare con allenamento e attrezzature adeguati e tempo sicuro.
PARTENZA
Raggiunta l’alta Val Trenta in territorio sloveno, si seguono le indicazione per le sorgenti dell’Isonzo (Izvir Soce), si supera l’omonimo rifugio e si prosegue per strada sterrata fino al divieto di proseguire in località Fattoria Flori (indicazioni).
ESCURSIONE
Il sentiero parte direttamente dal parcheggio (m 960) e sale con tornanti lungo la ripida faggeta. Prosegue poi sempre nel bosco con discreta pendenza fino ad un bivio a destra, che è una variante del percorso e porta a ricongiungersi con il sentiero proveniente dal passo Vrsic. Io consiglio di proseguire diritti: anche se in percorso è un po’ più ripido, è più lineare e si guadagna quasi una mezz’ora. In uscita dal bosco di incrocia il sentiero che a sinistra porta al Bavski Grintavec. Si prosegue sempre dritti tra mughi e poi su terreno finalmente aperto con vista sulla parete sud del gruppo dello Jalovec. Il sentiero prosegue sempre ben marcato e pendenza rispettabile finchè si giunge in vista della Spickom, la guglia di roccia ai cui piedi è posto il rifugio. L’ultimo tratto del percorso attraversa prati fioriti e conduce infine al rifugio (m 2.064).
Da qui si seguono le indicazioni per lo Jalovec che conducono per ghiaie ad una balza rocciosa con le prime attrezzature. Si continua a salire per gradinate e cenge spesso attrezzate la parete dell’Ozbenik. Si giunge così alla sella di Bretto, e si riprende poi la salita verso sinistra per roccette parzialmente attrezzate fino alla spalla della cresta sud dello Jalovec. Lungo l’affilato crinale assai meno ripido si sale fino alla cima a quota m2.643.
CONSIDERAZIONI
Che dire, è un’escursione per “veri uomini”! 1700 metri complessivi sia in salita che in discesa, seicento metri di parete rocciosa parzialmente attrezzata e passaggi aerei: qui si coglie il senso dell’espressione “passo sicuro” e “esperienza di montagna”. Ci vuole fisico, ma soprattutto testa per rimanere sempre concentrati e scansare i rischi obiettivi di questa escursione.
Imbrago si o imbrago no? Io dico si, perché non si sa mai: un sasso, una distrazione o un imprevisto possono essere fatali e, anche se i tratti attrezzati sono pochi, si ha una tutela in più. Si al casco, senza controindicazioni.
E poi, ascoltatemi, spezzate l’escursione con pernottamento al rifugio, a meno che non abbiate fatto qualcosa di molto brutto e vogliate punirvi o abbiate ansia da prestazione.
Dormire allo Zavetisce Pod Spickom è più di un espediente per spezzare l’uscita: € 20 (estate 2009) per i soci CAI sono il prezzo di un pernottamento con colazione e di una cena semplice, e consentono la piacevole esperienza della sana ospitalità slovena, per quanto spartana. Cercate di entrare in confidenza con le due adorabili signore di mezza età che lo gestiscono in maniera impeccabile e servono minestre appetitose e strudel deliziosi. Il balcone del rifugio offre una vista impagabile e, se avete la fortuna del bel tempo, la notte in quota con il cielo stellato è un piacere che si somma a tutti gli altri. Il rifugio, alimentato con pannelli solari, ha l’unica pecca della mancanza di acqua corrente.
Se spezzate la salita, vi godrete alla grande anche la fatica, che non manca neanche così. La cima è una delle più belle che ho salito e, se non soffrite di vertigini, l’adrenalina non mancherà, come pure l’occasione di ammirare praticamente tutte le cime delle Giulie. Preparatevi a faticare dal primo all’ultimo passo, anche in discesa, ma farete un’esperienza che non dimenticherete facilmente.
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