“S. Stefano sui monti di casa”
Far colazione al bar, sabato mattina, con la compagnia della rassegna stampa locale, scorpacciata serale di stupidaggini con “Agrodolce” e “Un posto al sole” spalmata sul divano, camminare a S. Stefano e a Capodanno: questi sono alcuni dei piaceri che rendono sopportabile la mia vita e ai quali non rinuncio se non per ragioni di pubblico interesse.
Nico ha deciso di venire con me, oggi: non saprò mai se per interesse autentico o per far piacere a me, ma non indagherò. La meta è vicina e di modesto impegno fisico, ma il Veliki Rob è sempre una cimetta gradevole e poi mi prude l’idea di arrivare fino al Kucelj e magari provare a rientrare con un anello.
Giornata coperta con poca gente in giro, oggi che tutti se ne stanno tranquilli sul divano a smaltire gli eccessi calorici di queste frenetiche giornate natalizie. Io e il mio occasionale compagno di cammino saliamo invece a Trnovo, mentre una fredda luce d’acciaio ci piove addosso.
Nico è intabarrato come per una spedizione d’alta quota, alla faccia delle temperature primaverili di questo strano dicembre.
Saliamo in silenzio per l’umido bosco che conduce alla cima rocciosa del Veliki Rob. Oggi è “slow travel”, in tutti i sensi: passi lenti, poco sudore, poche parole e, finalmente in cima, spazi aperti e tutta la regione davanti agli occhi. E’ un belvedere grandioso quello che ci spetta, seduti su queste guglie calcaree che precipitano nella valle del Vipacco con un salto di mille metri, mentre a nord è tutta salita di boschi spogli e ingrigiti fino alle Alpi Giulie. Beviamo tranquilli un sorso di the, guardando a est la nostra prossima meta.
Saliscendi tra erba secca e cupi boschi di conifere, sempre affacciati sull’orlo del bastione della selva di Trnovo. Si guarda l’Adriatico, pochi chilometri a sud, una distesa di piombo liquido, e poi, in direzione opposta, le fortezze delle Giulie imbiancate, camminando sempre in bilico tra due mondi, mentre il grido di una ghiandaia si spegna all’arrivo di un grosso rapace, forse una poiana. Il resto è silenzio e luce grigia e ancora saliscendi, sospesi sul bordo dell’altopiano. Non abbiamo ancora incontrato un’anima, ma sul Kucelj si vedono sagome in movimento.
Ce l’abbiamo davanti, ormai, una cupola erbosa percorsa da calcari e bassi ginepri; potremmo essere in Croazia, in Macedonia o in Grecia. Stesse erba dura e tagliente, stesse rocce bianche e tormentate, stessa vegetazione spazzata dal vento: Alpi Dinariche, Balcani, oriente. Tutto incomincia qui e porta inesorabilmente verso levante, verso i minareti e le tormentate repubbliche dell’ex Jugoslavia, una manciata di mondi in bilico, anch’essi, tra Mediterraneo, aspre montagne e pianura pannonica.
In cima troviamo qualche camminatore solitario e due coppie di sloveni loquaci con cui è piacevole scambiare due chiacchiere e farsi scattare la foto di vetta, io e mio figlio, una strana coppia di escursionisti.
Lui mi fa notare che quando chiacchiero con i cugini sloveni mi metto a parlare con accento russo. Ridiamo, mentre cerchiamo un posticino sottovento per mangiare un panino, guardando la pianura e il Veliki Rob che sembra lontanissimo.
Grazie alle indicazioni dei cugini sloveni, torniamo indietro con un nuovo percorso su makadan, che, con un lungo giro un po’ ozioso, ci riporta al punto di partenza. I boschi di Trnovo regalano sempre silenzi assoluti di faggi secolari e rocce muschiose. Sono boschi fatati, e anche Nico non si sottrae alla magia, anche se questa è forse la stagione più avara di luce e di colori.
Torniamo a casa, nel calduccio dell’auto, io che tengo a bada la gioia incontenibile di aver diviso la montagna con qualcuno di prezioso, mentre lui sembra solo stanco, ma chissa?! Chi può dire cosa si celi dietro i silenzi di un ventenne!?!